Dire qualche cosa sui New Order senza essere banali è impossibile. O meglio, è impossibile per me. Ma hanno fatto uscire un nuovo disco dopo parecchi anni di silenzio e quindi sono costretto a scriverci sopra qualcosa.
Di banalità in banalità, potremmo cominciare dicendo che la band di Bernard Sumner e Stephen Morris rientra alla grande tra le cose più importanti che il Regno Unito abbia partorito nella fase successiva alla sacra triade Beatles, Rolling Stones, Who. Va bene la Second British Invasion, coi suoi Blur e i suoi Oasis a dettare legge per quasi un decennio, ma lo scettro della musica britannica, io credo, rimane e rimarrà sempre saldamente nelle mani dei New Order e dei loro contemporanei Smiths.
Questi ultimi non ci sono più, bruciati in una fiammata troppo calda e luminosa per poter durare. I primi, contro ogni pronostico della vigilia, sono invece ancora qui a sfornare dischi nuovi più o meno regolarmente, nonostante i soliti saputelli si ostinino a ripetere lo scontato ritornello per cui “i vecchi dischi erano meglio”.
Sono nati quasi per caso, i New Order. Un “ordine nuovo”, quello evocato dal monicker, che era nient’altro che il tentativo di ricominciare a fare musica, dopo che il loro amico e cantante Ian Curtis si era tolto la vita proprio quando i suoi Joy Division stavano iniziando a raccogliere davvero i frutti della dura gavetta degli anni precedenti.
Lo avevano deciso in tempi non sospetti, che avrebbero cambiato nome se mai fosse accaduto che uno di loro quattro se ne fosse andato anche se, a dirla tutta, non credo che avessero mai pensato seriamente ad una eventualità tanto tragica.
“Movement”, il loro primo album, è però ancora un disco dei Joy Division, ma non quello che sarebbe seguito a “Closer” se Ian Curtis fosse rimasto: c’è troppa confusione, troppe idee abbozzate ma non sempre concluse, l’atmosfera sospesa di un collettivo disorientato, che sembra non sapere esattamente che cosa ci faccia lì. Ciononostante, rimane un gran disco.
Così come il successivo, “Power, Corruption and Lies”, che in molti considerano un capolavoro ma che appartiene ancora al passato, è ancora figlio di quel sound oscuro e ossessivo nato dalla disgregazione del Punk.
I New Order, i veri New Order, sarebbero nati solo successivamente, prima con “Low-Life”, poi col singolo “Blue Monday”, successo strepitoso, inno generazionale, brano simbolo e quant’altro.
Nasce in questo momento la vulgata “I New Order sono la versione allegra dei Joy Division”. Che poi non è vero per nulla, perché di allegria in senso stretto, in tutte le cose che hanno fatto, ce n’è proprio molto poca.
Diciamo piuttosto (e qui forse non sbagliamo) che i New Order rappresentano la faccia più Pop dello stesso sound, che hanno reso la matrice di base più accessibile, contaminandola con massicce dosi di elettronica e portandosi spesso a stretto contatto con la Dance e la Disco Music.
Non stupisce quindi che il successo planetario l’abbiano raggiunto loro, sebbene all’epoca si giurasse che i Joy Division potessero diventare in breve tempo una band da stadio.
Non è stato tutto roseo, comunque. Negli ultimi anni ci sono stati tanti screzi, soprattutto tra il chitarrista cantante Bernard Sumner e il bassista Peter Hook. Quest’ultimo se ne andò sbattendo la porta qualche anno fa, poi pubblicò un’autobiografia piuttosto controversa, con la quale ha voluto far capire che i rapporti col suo compare erano stati tesi fin dall’inizio. Poi si è messo a dire che era assurdo continuare a portare avanti il passato quando tante cose erano cambiate, che il progetto non era più genuino e cose così. Salvo poi girare l’Europa con la sua band proponendo vari album dei New Order nella sua interezza. Non un comportamento totalmente lineare, diremmo. Logico che un bel po’ di fan se la siano presa.
Sinceramente, non pensavo che la band senza di lui avrebbe mai deciso di continuare ad esistere. Avevano già fatto un tour europeo, qualche anno fa, e in Italia si erano esibiti in compagnia dei Cure. Ma aveva contato molto l’effetto celebrazione e, oggettivamente, credo che nessuno pensasse che potesse esserci un nuovo album alle porte.
Invece, proprio all’inizio dell’estate, è arrivata la notizia che il 25 settembre sarebbe uscito “Music Complete”. Che è il loro decimo disco in studio ed arriva a dieci anni tondi dall’ultimo “Waiting for Siren’s Call”. Quando si dice la cabala.
Ora, non è che sia mai rimasto deluso da nessuno dei loro album, anzi. Però è giusto dire che gli ultimi due erano buoni, forse anche molto buoni, ma mostravano una band che aveva già dato, musicalmente parlando. Diciamo che mi aspettavo qualcosa di simile, non molto di più.
Invece poi a luglio è uscito “Restless”, il primo singolo, che fungerà anche da traccia di apertura. E a questo punto qualcosa è successo.
La voce di Sumner inconfondibile, così come i fraseggi della sua chitarra, la solita dose di elettronica, il ritornello modellato su due note e tanto orecchiabile da essere quasi irritante. Suonava già sentita, certo. Suonava ruffiana, ovviamente. Eppure era la cosa migliore che i New Order avessero fatto da molto più di dieci anni.
Il disco mi è arrivato all’inizio di settembre, più o meno. L’ho ascoltato qualche volta, timidamente. Non avevo il coraggio di dirlo, all’inizio. Poteva essere un’impressione frettolosa, come a volte mi succede quando attendo un disco in maniera spasmodica.
Ho dovuto completare almeno una decina di ascolti prima di esserne sicuro e ogni volta l’impressione iniziale non mutava, semmai si consolidava. Adesso, finalmente, lo posso dire: “Music Complete” è un disco pazzesco. Definirlo un capolavoro sarebbe, quello sì, azzardato: è una parola che si potrà spendere solo tra qualche anno, quando potrà essere collocato nella giusta prospettiva storica. Per adesso accontentiamoci di dire due cose: nel 2015 un disco di questo livello ancora non lo avevo ascoltato. I New Order un disco di questo livello non lo scrivevano da tanto, tantissimo tempo.
Ecco, il punto sta probabilmente qui. Come molte grandi band degli anni ’80, il terzetto di Manchester è sempre stato molto forte sui singoli, un po’ meno sugli album. Quasi tutti i brani di maggior successo dell’act mancuniano, da “Blue Monday” a “True Faith”, da “Temptation” a “1963”, non sono mai andati ad abbellire un full length ma sono sempre stati pubblicati in separata sede.
Ecco, adesso, forse per la prima volta, i New Order hanno realizzato un disco che sembra proprio una raccolta di singoli. E tutti potenziali numeri uno.
La formula, a ben guardare, è semplice: utilizzare la solita formazione allargata comprendente anche Tom Chapman e Phil Cunningham, richiamare all’ovile un vecchio membro come Gillian Gilbert, che mancava dal 2001, e che ha fornito un certo contrappeso alla perdita di un pezzo da novanta come Hook.
Poi, circondarsi di una squadra di produttori quotatissimi, che hanno affiancato la band dietro la consolle: Tom Rowlands e Stuart Price, da questo punto di vista, hanno svolto un ruolo più che egregio.
Chiamare una pletora di ospiti illustri, quali Brandon Flowers, Elly Jackson, la frontman dei La Roux che ha aperto le date della band lo scorso anno e un’icona come Iggy Pop, con il quale Sumner aveva duettato lo scorso anno a New York in occasione di un concerto benefico a favore del Tibet.
Ma tutti questi ingredienti sono inutili se non si hanno le canzoni. E allora ecco arrivare undici tracce che sono talmente belle che viene quasi da pensare che siano state selezionate accuratamente tra tutto quanto la band ha presumibilmente prodotto in questi dieci anni. Solo in questo modo potrebbe essere possibile spiegare come un gruppo con trent’anni di attività alle spalle, possa pubblicare un lavoro di oltre un’ora di durata, con undici pezzi dalla lunghezza media consistente (come del resto è sempre stato nelle loro corde) che non solo non annoia nemmeno per un istante, ma che non contiene nemmeno un riempitivo.
Dopo “Restless”, che è l’opener perfetta, col suo basso pulsante e i suoi ricami di chitarra acustica ad inspessire la ritmica, arriva “Singularity”, un brano epico e trascinante come non si sentiva dai tempi di “True Faith”. Poi la dance ruffiana e contagiosa di “Plastic” (uscita come secondo singolo), con un beat di batteria su cui è impossibile stare seduti e le vocals di Elly Jackson ad abbellire il tutto; “Tutti Frutti” si muove sulla stessa falsariga e si avvale dell’apporto vocale di Brandon Flowers, oltre che di una voce campionata che in perfetto italiano pronuncia frasi appassionate che si intonano perfettamente col mood del brano.
“People on the High Line”, che vede ancora la Jackson dietro al microfono è invece un Funk irresistibile con una chitarra stellare.
È un disco vario, questo e ne si ha la conferma con “Stray Dog”, che colpisce con le sue atmosfere inquietanti e le sue solenni orchestrazioni, ed è tenuta in piedi da un Iggy Pop in gran spolvero che racconta quella che ci appare come una storia d’amore turbata dai demoni dell’alcol.
Poi ci sono autentici inni come “Academic” o “Unlearn This Hatred”, che davvero nulla hanno da invidiare ai grandi classici e altri episodi spensierati come “Nothing But a Fool” o la conclusiva “Superheated”, un pezzo che ci azzarderemmo a definire solare, sprigionante una carica positiva che probabilmente Sumner non aveva mai espresso con tale intensità.
Tutto questo ben di Dio, senza mutare di una virgola la ricetta originaria, che da decenni li vede campioni incontrastati del pop rock elettronico: un disco per certi versi semplice e diretto, ma nello stesso tempo anche profondamente stratificato, con un gran lavoro di chitarre, tastiere, campionamenti, orchestrazioni e percussioni varie, il tutto espresso con un sound al passo con i tempi e gli standard odierni di produzione, ma che suona nello stesso tempo deliziosamente “vintage”.
“Music Complete”, hanno scelto di intitolarlo: qualunque ne sia il motivo, è sicuro che questo è un lavoro completo, sotto ogni punto di vista. Se vorranno fermarsi a dieci album, non potrebbe esserci epilogo migliore.
A questo punto bisogna sentirle dal vivo, queste canzoni. Per il momento suoneranno qualche data in Inghilterra e Belgio a novembre, ma si tratta solo di un riscaldamento: l’Italia ultimamente è un po’ mancata dal loro orizzonte ma con una cosa così da promuovere siamo certi che un giro non se lo faranno mancare.
Disco dell’anno, non ho certo bisogno di aspettare Natale…