Ippodromo City Sound, Milano: venerdì 11 luglio 2014. Caparezza l’obiettivo, tantissimi i dubbi nella testa quando, appena prima della fine di aprile, spunta fuori “come un fungo” un fratello quattordicenne che mi chiede di accompagnarlo a sentire il rapper (che poi, davvero possiamo considerarlo solo e proprio un rapper?) pugliese di Molfetta. Come no, certo, dico io: avere dei fratelli o delle sorelle con dieci anni più di te, fa sempre comodo. Ma alla fine, perché no?
Per quanto non ami il genere, Capa mi è sempre andato a genio, e parecchio. Probabilmente devono essere tutti quei ricci sulla testa, cosa che abbiamo in comune, o magari tutti quei testi in cui racconta, a suo modo tutto indecifrabile e da fuga di idee, la sua passione per la scrittura. Dunque, alle 14.00 (nota bene, il concerto iniziava alle 21.30) zaino in spalla, si passa a prendere alcuni amici, e diretti in fila, fuori dall’Ippodromo. Certo, la vita da “concertista” è dura. Vuoi la prima fila? Stai certo che le sette ore precedenti le hai passate in piedi in bilico su qualche centimetro quadrato di spazio, oppure seduto nella terra con anche il tuo zaino che ti guarda, un po’ impietosito, mentre tu ti inzaccheri di ogni granello di polvere possibile. O ancora meglio, le hai passate con tuo fratello che ti fissa con quell’aria di supplica da “ma quando finisce tutto questo?”, ma non osa aprir bocca.
Niente sconti, comunque. Tutta l’attesa l’ha respirata fino in fondo e se l’è portata sulle spalle: fatica ripagata? Senz’altro. Perché non è stato solo un concerto, ma anche un po’ come tornare a scuola, come andare a teatro e anche un po’ come sedersi a tavola con tutta la famiglia allargata, e chiacchierare.
Capa, non si è fatto attendere, e neanche la sua nuova creazione, il signor Album Museica, uscito il 22 aprile di quest’anno. Alle 21.30 puntuale sul palco – anche perché entro le 23.30 avrebbe dovuto per forza calare il sipario, pena una multa da parte del Comune di Milano-, spuntano le sue ciocche “in cui c’ha il fango di Woodstock”, quando aprono una gigantesca matrioska in grado di racchiuderlo tutto: ma tutta la scenografia, fedelissima alla copertina di Museica, ci aveva già preannunciato qualcosa di spettacolare.
Da un’opera di Domenico dell’Osso, classe 1975, la copertina di Museica racchiude in sé tutto il significato del nuovo album di Michele Salvemini, il cui nome è una crasi tra museo, musica e 6 e la cui idea, come anche lui stesso ha spiegato in più occasioni, nasce da una visita al museo di Van Gogh che si trova ad Amsterdam. Tutto l’album è un vero e proprio viaggio all’interno dell’arte moderna – e non solo, come dimostra il suo brano “Giotto Beat”- e vuole anche essere una sorta di audio-guida tutta “caparezziana”.
Non si stupisce nessuno, dunque, quando la frase “Museica inizierà tra pochi minuti” inizia a risuonare per tutto l’Ippodromo, interpretata da una voce meccanica che sembra proprio quella delle audio-guide dei musei, o di quelle che annunciano i ritardi dei treni a tutti gli indaffarati pendolari: ma il boato si sprigiona quando oltre al suo marchio inconfondibile, da quella matrioska che fa compagnia a tutti i colori di un palcoscenico che sarà ricchissimo, fa capolino lui, tutto per intero. Parte subito, con un brano da Museica, “Avrai ragione tu”, spara la sua prima cartuccia, che dice essere la migliore, e ci butta nella Russia sovietica, con un maxi schermo dietro di lui pieno di pugni alzati e la folla che dà letteralmente fuori di matto. L’ha sparata davvero grossa, quando ha detto di aver già dato il meglio con quella prima cartuccia: seguono, a ripetizione, nuovi brani e vecchi successi, il tutto condito con la magia del teatro canzone di Giorgio Gaber, che, come lo stesso Capa ammette, ha fatto da ispirazione.
Pian piano siamo letteralmente rapiti, e non solo da lui, ma dai personaggi che riempiono di risate gustose gli intermezzi tra una canzone e l’altra, come il Vincent Van Gogh con il cappello giallo, che apre a “Van Gogh”, altro pezzo da Museica o anche lo stesso Kitaro, personaggio manga nato negli anni 60 che apre al pezzo omonimo, dedicato dal grande artista ai “bambini” presenti, ma solo a quelli nati negli anni sessanta. E di bambini ce n’erano eccome, a partire da quelli nati negli anni sessanta, fino a piccolini di 5 o 6 anni ammucchiati su una tovaglia da picnic che osservavano meravigliati quello spettacolo dal genere indefinibile, che saltellava raggiante da un cabaret con tutti gli interpreti del caso -comprese due modelli a grandezza reale del Capa buono e del Capa cattivo su “Vieni a ballare in Puglia”- e l’insostituibile spalla di Caparezza, Diego Perrone; alle scenografie assolutamente azzeccate e che per un album così intrecciato con il mondo dell’arte erano imprescindibili; fino all’essenza di Capa, che non tralascia affatto il miscuglio tutto suo di musica, politica, sociale, come dimostra anche il brano “Siete stato voi”, in scaletta venerdì sera. Insomma, nessuna nota negativa, anzi: ci carica sempre di provocazioni attualissime, come nella sua “Non me lo posso permettere”, e ci porta ad esplorare la società di oggi, vedi un po’ “Compro Horror”, raccontandoci aneddoti, storie che magari non conoscevamo, testimone, almeno nel mio caso, “Teste di Modì”, sempre con il suo dono di intrecciare ogni parola, ogni idea e ogni immagine in un modo così criptico che non riesce a fare altro che stuzzicare le voglia di sciogliere tutti i nodi.
Più cupo, se vogliamo, quest’album, di un Caparezza più vecchio (“sono un treno che viaggia sulla quarantina”), che però non si smentisce (“ma non ho ancora smaltito l’adrenalina”), che si racconta in tutto e per tutto in “Fai da Tela”, con tutto il contrasto interiore che lo ha sempre tormentato, ma che ancora ci lascia a bocca asciutta, musicalmente appagati, ma personalmente irrequieti. Non che sia negativo, sia chiaro: personalmente ricaricati, un po’ come risvegliati; e magari potremmo anche concluderne che “Caparezza non mi piace, è troppo politico”; ma di certo quel che non gli manca è la schiettezza, la sincerità con cui ognuno dovrebbe vedersela con sé stesso e con il resto del mondo.
E il fatto che sia stato un quattordicenne, dopo aver ascoltato il suo nuovo disco, a convincermi ad andare, è stata una vera e propria doccia d’acqua fredda. Grazie Capa, per essere stato come uno di quei ragazzi delle teste di Modì, venerdì sera. Si va a casa sulle note di “E’ tardi”, frastornati, felici, parzialmente punzecchiati dalle zanzare, passo e chiudo. Se non è chiaro, è perché “il dottor Zivago mi ha detto sii vago”, e a voi l’opportunità di buttarvi a capofitto al prossimo concerto. Ci vediamo lì.
(Maria Ravanelli)