Poche cose mi risultano così stimolanti oggi come provare a cortocircuitare i linguaggi e gli schemi. Nella cultura, nella musica, nell’umanità intera: perché dovremmo starcene ognuno al proprio posto? Quanto perdiamo nella mancanza di curiosità? Quanto perdiamo quando non abbiamo sete di incrociare l’esperienza? Incapaci di guardare fuori dal nostro proprio loculo finiamo con il mancare l’appuntamento con ciò che può spingere oltre lo sguardo. E venendo al punto: perché il rock deve rimanere per i rockettari? Per questo ho provato a provocare Piero Bonaguri il quale, bontà sua, ha avuto pazienza e curiosità sufficientemente ampie da ascoltarmi. L’inizio era semplice: che ne dice un “classico” dello stile e della tecnica di alcuni “virtuosi del rock” (non necessariamente i migliori, anzi: ma di sicuro alcuni tra i più “citati” della recente cultura delle sei corde). Ne è uscita questa lunga riflessione, dove Bonaguri rilancia molto più avanti il pallone sul campo da gioco. Una bellissima provocazione. Utile per tutti: sia per chi odia il rock, che per chi crede che Jimi Hendrix sia più importante di Johan Sebastian Bach.
(Walter Gatti)
L’intervento di Piero Bonaguri
Al Meeting 2012, poco prima del mio concerto Omaggio a Segovia, Walter Gatti mi chiede se mi va di fare una “chiacchierata” sulla chitarra rock nella mia veste di importante (dice lui) chitarrista classico. Accetto, ma per il momento non se fa nulla anche perché parto per la Spagna quasi subito dopo il concerto. Dopo qualche mese, in un momento di maggior calma, mi torna in mente il suo invito e gli mando una mail confermando la mia disponibilità, così Walter mi manda i link a quattro video di virtuosissimi chitarristi rock chiedendomi di reagire alla visione ad all’ascolto. Si tratta di Paul Gilbert (Technical Difficulties), Steve Vai (Love of God), Govan Guthrie (Bad Asteroid) e Eddie Van Halen (Eruption).
Una premessa che ritengo doverosa: io sono ignorantissimo sul rock. Fin da piccolo mio padre mi ha educato all’ascolto della musica classica e tra i primi ricordi della mia vita ci sono i brividi alla schiena che provavo ascoltando pezzi come l’Aria sulla quarta corda di Bach. Quando verso i dieci anni nacque in me la passione per la chitarra, però, all’inizio le suggestioni mi venivano dalla chitarra che sentivo in giro, e cioè probabilmente proprio dal rock – eravamo a metà degli anni sessanta – , ma quando poco dopo scoprii la chitarra classica mi orientai entusiasticamente verso quel “mondo” di cui peraltro c’era qualche traccia nella chitarra “leggera” che avevo conosciuto, nella quale a volte aleggiava qualche vaga reminiscenza bachiana…
Il mio quasi contemporaneo incontro con il movimento di Comunione e Liberazione mi fece anche scoprire o riscoprire la bellezza delle semplici canzoni; poi, quando arrivò anche dalle mie parti l’abitudine di ascoltare musica classica all’inizio e alla fine degli incontri del movimento, mi colpì la capacità di questa esperienza di tenere insieme e valorizzare tutto – per cui, ad esempio, non era “stonato” ascoltare la registrazione di una Messa di Mozart e subito dopo cantare insieme una canzone di Claudio Chieffo o un canto popolare tradizionale, oppure leggere Leopardi, e poi un blues di Baldwin o una poesia dal Samizdat, o una lettera apparsa sul giornale. Tutte queste cose parlavano in modi diversi dell’unico cuore dell’uomo – che siamo stati educati a riscoprire, rosso e pulsante, anche nel famoso Icaro di Matisse, come in tanta letteratura, arte e musica di ogni epoca.
Così, quando il maestro Alirio Diaz mi diede i testi di alcuni canti popolari venezuelani che lui proponeva in concerto nei suoi bellissimi arrangiamenti per chitarra classica – quasi una propaggine vivente delle gloriose “scuole nazionali” i cui esponenti, grandi musicisti classici come Dvorak o Albeniz, incontravano la musica popolare della loro terra – io stesso proposi al movimento alcuni di questi canti venezuelani, che entusiasmarono da subito Don Giussani e sono diventati dei “bestsellers” tra noi – ad esempio “Como Busca” o “Estrella del Mar” (ed era lo stesso Don Giussani a parlare in modo inaudito della musica per chitarra di Villa – Lobos con arditi accostamenti a Dvorâk, Schubert e Beethoven, e a volere che io la registrassi per la collana “Spirto Gentil” da lui diretta).
Però in tutti questi anni io sono stato sempre decisamente lontano dal rock, complice tra l’altro (non so quanto giustificato) un mio deciso sospetto verso la disco – music imperante. Qualche mio allievo di conservatorio mi aveva fatto sentire qualcosa di chitarra rock, ma attraverso quei pochi ascolti il mio sospetto, se mai, si era accentuato. Detto questo, e consapevole d’altra parte della valorizzazione del rock che è stata fatta proprio da quello stesso Meeting 2012 che ha ospitato il mio omaggio a Segovia, mi accingo curioso all’ascolto di quanto propostomi da Walter Gatti.
Evidentemente baso quello che dirò di seguito su questi pochissimi ascolti, per il resto la mia ignoranza in materia è purtroppo ancora abissale e me ne scuso in partenza… capisco che entro, semplicemente reagendo a primi e pochi ascolti, in un mondo vastissimo, pieno di miti e oggetti di “culto” a livello mondiale, star, fan… spero di non muovermi come un elefante in cristalleria e di non scandalizzare nessuno. Insomma: mi è stato chiesto di reagire e reagisco! Anche se mi sembra – e cerco di ascoltare senza lasciarmi influenzare da pregiudizi – che la prima reazione ai video di chitarristi propostimi da Walter mi conferma e rafforza in un giudizio decisamente negativo, che cerco di razionalizzare.
Parto (visto che sono stato chiamato in causa come chitarrista) dal tipo di chitarra e di tecnica in essi usata (e queste osservazioni dal linguaggio un po’ tecnico e specialistico non sono in sé critiche negative, sottolineano solo la differenza tra la chitarra classica e quella rock) per dire che si tratta praticamente di un altro strumento rispetto alla chitarra tradizionale.
La chitarra rock nei video che ho ascoltato è uno strumento essenzialmente melodico, melismatico, che viene usato un po’ come una voce, o un flauto o un violino – per capirci – con qualche rara virata accordale e ritmico-percussiva. Anche per questo, e diversamente dalla chitarra classica, questo strumento si muove facilmente e frequentemente nella zona acuta e sovracuta della tastiera, anche nelle corde interne. La caratteristica, poi, della corda vibrante della chitarra, e cioè il decadere del suono dopo l’attacco iniziale, viene stravolta o annullata dai devices elettronici che, sostenendo artificialmente e indefinitamente la durata del suono, accentuano ancor più l’aspetto vocale – melodico della chitarra rock.
All’amplificazione elettronica è poi affidata la potenza del suono: ne risulta uno strumento più “facile”, nel senso che le corde sono quasi attaccate alla tastiera e la mano sinistra non deve mai “spingere” su di esse, come del resto neanche la mano destra, essendo il problema della “cavata” del suono affidato appunto all’amplificazione. Il problema della ricerca timbrica affidata al tocco della mano destra sulla chitarra classica qui mi pare sostanzialmente assente Ne risulta una grande e visibile rilassatezza degli interpreti ed una indubbia facilitazione all’agilità e velocità esecutiva, (i problemi del chitarrista classico per far suonare le “legature” tecniche qui sono risolti in partenza, basta appoggiare il dito della mano sinistra sulla corda premendo fino al tasto e la chitarra suona) velocità che sembra essere una delle caratteristiche esecutive richieste da questo tipo di musica.
La chitarra rock viene poi quasi sempre suonata con il plettro e non con le dita della mano destra – per spiegare la differenza, diciamo che è come se si usasse un dito solo invece delle quattro della mano destra tradizionalmente usate nella chitarra classica. Diventa così impossibile eseguire, ad esempio, un passaggio polifonico in cui una melodia sulla prima corda sia suonata assieme ad una melodia sulla quarta e ad un’altra sulla sesta (come in un coro a tre voci la melodia del soprano si intreccia con quella del tenore e del basso); in compenso l’unico “dito” a disposizione, e cioè il plettro, può colpire la corda nelle due direzioni, dal basso verso l’alto e viceversa. L’effettistica elettronica è poi responsabile di tutta una serie di possibili alterazioni del suono, cosa che del resto avviene anche nel campo della musica classica contemporanea attraverso l’uso del live electronics. Si tratta qui comunque, dal punto di vista strettamente tecnico, di indubbio virtuosismo, pur se confinato ad alcuni pochi parametri; in questo senso nulla da dire, anzi tanto di cappello alla bravura tecnica.
(Conitinua)