Era il lontano 1988 quando una band canadese, che aveva pubblicato l’anno prima un disco di esordio passato inosservato, formata da tre fratelli (la cantante Timm Margo, l’autore di canzoni e chitarrista Michael e il batterista Peter) insieme a un amico, il bassista Alan Anton, pubblicava un album destinato a diventare tra i più significativi della storia della musica rock. Si intitolava “The Trinity Session”, era stato registrato dentro l’omonima chiesa di Toronto e spalancava il mondo della musica a una visione nuova della musica stessa che avrebbe influenzato dozzine di band e songwriter a venire. Registrato in modo informale, in una sola giornata, quasi low-fi, grazie alla splendida voce vellutata e malinconica di Margo, alle chitarre deflagranti di Michael, riscriveva la tradizione folk e country alla luce della lezione dei Velvet Underground: riff minimali, tempi rallentati visioni oscure velate di una tristezza apparentemente inspiegabile. Conteneva non a caso una versione di Sweet Jane che l’autore stesso, Lou Reed, definì la più bella mai fatta di quel suo pezzo. Vent’anni dopo tornarono “sul luogo del delitto”, la stessa chiesa, più alcuni ospiti speciali, per riregistrarlo completamente, come fosse stato un concerto a cui assisteva solo il Cristo crocifisso. Il risultato era ancora più bello.
Trent’anni anni dopo, con una lunga pausa di alcuni anni, i Cowboy Junkies sono ancora qui, incredibilmente con la stessa formazione degli esordi, ancora perduti in quel mondo country-gothic degli esordi, con il nuovo disco “All That Reckoning”. La freschezza degli esordi si è un po’ persa nel tempo, ma non la sincerità e l’onestà del gruppo che, si può dire, ha dato via al movimento dell’alternative country negli anni 90. Ballate melanconiche, nostalgiche, insieme a esplosioni soniche della chitarra elettrica compongono ancora il loro menu, ad esempio in Sing me a Song o in The Things We do Each Other, dove la parte di chitarra ricorda quella di Robert Fripp di Heroes. “Tutto quello che conta” si intitola il disco, una sorta di motto della loro carriera: ancora una volta i Cowboy Junkies pongono il cuore e i suoi desideri affettivi al centro delle canzoni, anche se le storie finiscono spesso male come nella toccante Wooden Stairs. Un viaggio che cattura dopo attenti ascolti come sempre nei loro dischi, che immerge l’ascoltatore in visioni mistiche che si concludono con la deliziosa, solo voce e mandolino, The Possessed, come a riportare tutto a casa, con dolce mestizia.
Sono narratori di storie immaginari, viaggiatori del mistero, di luoghi mai visti come in un racconto di Flannery O’Connor, popolato di fantasmi ma che alla fine è più realistico di chi in quei luoghi ci vive davvero. Perché è da lontano che si vede meglio la realtà, andarci troppo vicino significa bruciarsi e forse è questo il segreto della loro longevità: “I don’t want to see your shining teeth/ Show me your bruised and battered heart” canta Margo nell’affascinante Shining Teeth.
Contemporaneamente a quanto succedeva a Toronto, a Minneapolis, non molto distante, si mettevano insieme i Jayhawks, guidati da due dei più brillanti songwriter della loro generazione, Gary Louris e Mark Olson. Anche la loro musica era intrisa di una malinconia cosmica, anche se guardavano come modelli a Eagles e Neil Young. Hanno lasciato dietro di sé diversi capolavori come “Hollywood Town Hall” o gli straordinari tributi al gluma rock e al pop beatlesiano di “Sound of Lies” e “Smile”. Pubblicano adesso dopo anni di lontananza e brevi regnino con il membro fondatore Mark Olson che ha lasciato da parecchio tempo, un disco che già dal titolo è un programma: “Back Roads and Abandoned Motels”, strade secondarie e motel abbandonati. Un titolo immaginifico ma di autentica “americana”, come Sam Shepard o Cormack McCarthy avrebbero potuto fare, mentre la foto di copertina è del regista Wim Wenders e potrebbe uscire da quei suoi film che narrano l’America di provincia, tra solitudine e redenzione. Il disco in realtà contiene brani che il leader Gary Louis ha scritto con altri artisti nel corso degli anni e poi donato per i loro album, ad esempio le Dixie Chicks con Come Cryin’ to Me, Gonna Be A Darkness con Jakob Dylan e El Dorado con Carrie Rodriguez. La band se ne riappropria, facendole sue, con quel classico sound indolente country rock tra Byrds e Neil Young, ma con tanto gusto per le armonie e la ricercatezza sonora che ne hanno fatto un modello originale, a cui, anche in questo caso, si sono ispirati in tantissimi. Per la prima volta poi Louris lascia il microfono in alcuni brani al batterista Tim O’Reagan e alla tastierista Karen Grotberg (che apre il disco con Come Cryin’ To Me). Tre di questi brani però non erano mai stati registrati prima, e cioè Backwards Women (splendido jingle jangle degno dei migliori Byrds), scritta con i Wild Feathers e Long Time Ago, composta con Emerson Hart e anche questa mai pubblicata prima.
Infine ci sono due pezzi nuovi di zecca, le conclusive Carry You To Safety e la delicata Leaving Detroit, dall’intro pianistico. E’ un disco intenso, pieno di sfumature e di ballate che entrano sotto pelle, ad esempio la magnificente Bitter End, un malinconico valzerone con un violino dai sapori irish.
Ascoltando i due dischi in sequenza, appare la visione di una sorta di addio, un tributo a un’epoca in cui eravamo tutti più giovani e ancora si inventavano movimenti musicali nuovi, alla ricerca di sound rivoluzionari. Adesso che siamo tutti un po’ più vecchi e la musica rock è ormai una declinante strada che porta al vuoto creativo, ci lasciamo cullare da sogni sognati in un motel abbandonato. Lì ci sarà sempre una stanza dove ascoltare la soffusa dolcezza di una Sweet Jane, prenotata a nostro nome perché, come dicevano gli Eagles in Hotel California, “potrai fare il check in quando vuoi, ma non potrai andartene mai più”.E noi, da tanta bellezza e consolazione, non vogliamo proprio andarcene. Perché poi alla fine “è questo tutto quello che conta”: guardarci nel cuore e incontrarci in quella luce che il mondo cattivo e freddo là fuori cerca sempre di spegnere.