“Solo così la scuola può assolvere al suo vero compito: se corre il rischio di essere davvero libera, coraggiosa, non disposta a ridurre la trasmissione della cultura a un ingombrante e disorientante accumulo di dati”. A dirlo è Anna Maria Frigerio, docente di greco e latino per 25 anni in istituti statali e attualmente preside del liceo classico e scientifico della Fondazione Sacro Cuore di Milano. A lei abbiamo rivolto, nell’ambito della campagna OpenDay Insieme promossa da CdO Opere Educative, alcune domande sulla scelta della scuola e sul rapporto fra scuola e famiglia.
Professoressa Frigerio, esiste la “scuola giusta”?
Gli anni della scuola superiore costituiscono nella vita di una persona un momento particolarmente prezioso e delicato: in essi infatti matura e approda a una consapevolezza critica la considerazione che un ragazzo ha di se stesso e della relazione con l’altro, da un punto di vista cognitivo e affettivo. In questo senso la trama di rapporti, l’ambiente, di cui è intessuta la vita di un ragazzo può giocare un ruolo molto importante: la scuola superiore diventa infatti un primo momento di verifica di quanto si è naturalmente appreso in famiglia o in ambiti più ristretti e più facilmente in relazione con la famiglia stessa. La scuola giusta è dunque quella in cui un ragazzo possa essere aiutato in questo cammino di verifica, di scoperta profonda di sé, del modo che gli è proprio di capire le cose e di saperle elaborare in modo originale e personale.
Normalmente, però, non sono questi i criteri messi in campo dagli studenti e spesso neanche dai genitori. Come fa un ragazzo, per di più in pieno processo evolutivo, a reggere una sfida così impegnativa?
Perché questo possa accadere è necessario che ci siano degli adulti — dei maestri — personalmente impegnati in questo stesso tipo di verifica e in grado di testimoniare una certezza esistenziale capace di comunicare un orizzonte di significato all’interno del quale possa avvenire un vero cammino di ricerca. Degli adulti amanti e rispettosi della libertà dei ragazzi e pertanto disponibili a sfidarla.
Ma la scuola italiana è preparata a rispondere ad una domanda così profonda?
Occorre cercarle le scuole così! Abitate, rese vive da insegnanti disposti ad accogliere la domanda di senso che i nostri ragazzi, anche quando sembrano negarla nella apatia o nella trasgressione, pongono in modo ostinato. Solo così, del resto, la scuola può adeguatamente assolvere al suo ruolo: se corre il rischio di essere davvero libera, affrancata cioè da sterili posizioni ideologiche e nel contempo coraggiosa, non disposta a ridurre la trasmissione della cultura a un ingombrante e disorientante accumulo di dati. Credo sia questa la sostanza delle domande che una famiglia deve porre a una scuola. Il ruolo che le spetta è quello di essere intelligente e sensibile interlocutrice di un’avventura umana di cui i figli sono assoluti protagonisti.
E le attività di orientamento scolastico sono utili in questo senso?
I percorsi di orientamento messi in atto dalla scuola primaria sono spesso molto utili per aiutare i ragazzi e le loro famiglie a scegliere in modo consapevole. Vi sono però alcune criticità.
Quali?
Riguardano a mio avviso da una parte il fatto di anticipare sempre di più il momento della scelta (si inizia a parlare di orientamento già nel corso del secondo anno della scuola secondaria di primo grado), e dall’altro il timore di insegnanti e genitori di esporre i ragazzi a scelte troppo onerose per quanto riguarda i licei o, al contrario, il ritenere scelte di minore valore quelle legate a percorsi professionali.
Si spieghi.
Ogni ragazzo ha in sé un dono di intelligenza e sensibilità che bisogna sapere intercettare, senza paura né false ambizioni. Il dialogo tra insegnanti e genitori è pertanto decisivo perché può aiutare a cogliere la peculiarità di ciascun ragazzo nella sua possibilità di sviluppo. Il momento della scelta della scuola superiore può diventare l’inizio di una relazione adulta tra genitori e figli, un’occasione di consapevolezza profonda del modo con cui si guarda ai propri figli, del tipo di aspettativa o, meglio, di attesa reale che si ha sulla loro persona. Alla scuola in fondo si può chiedere solo ciò che si vive personalmente come tensione e passione educativa.
E gli open day servono? Non c’è il rischio di trovarsi di fronte a “vetrine ingannevoli”?
Gli open day sono uno strumento utile per capire la qualità di una scuola perché avviano sempre e comunque in chi opera e vive nella scuola una riflessione critica sul percorso che al suo interno viene proposto. Quanto più una scuola è viva, tanto più saprà proporre in termini semplici ed essenziali — e quindi non ingannevoli — ciò che quotidianamente avviene al suo interno, sia termini epistemologici sia attraverso esemplificazioni didattiche. Incontrando docenti e studenti nel corso degli open day si può facilmente avvertire il tipo di implicazione personale e di crescita umana e culturale, ultimamente un’esperienza di libertà e di soddisfazione, che sta avvenendo nelle persone.
Insomma, il momento della scelta è davvero impegnativo… Qual è a suo giudizio il fattore più determinante per viverlo in modo adeguato?
Occorre una lealtà estrema sia da parte dei ragazzi che da parte dei genitori nel prendere in considerazione con equilibrio i diversi fattori da tener presente per giungere a una scelta appropriata, sempre nell’ottica di un amorevole rispetto della persona e della responsabilità che a ciascuno chiede la scoperta delle proprie attitudini e inclinazioni. I ragazzi vanno ascoltati, profondamente. E sostenuti. Si può e si deve chiedere loro di essere veri con se stessi e lo si può fare solo se lo si è!