“Strana circostanza, degna di meditazione, il fatto che ogni creatura umana è composta in modo da esser per tutte le altre un profondo segreto e un profondo mistero… in qualcuno dei luoghi di sepoltura delle città che attraverso, v’è un dormiente più imperscrutabile dei suoi abitanti vivi, nella loro intima personalità, o più imperscrutabile di quel che io non sia per loro?” È con un interrogativo simile, così intenso, così vasto ad avviarsi, dopo poche pagine, “Le due città” di Charles Dickens. Non c’è molto da discutere o cavillare, esso è semplicemente, dolorosamente vero.
Ne consegue tuttavia una seconda domanda: si tratta a tutti gli effetti di un mistero impenetrabile, di un’ultima incomunicabilità ben più raggelante di quella dei sepolcri di marmo, oppure è possibile, nella vita, che qualcuno e qualcosa faccia breccia nel più intimo della nostra persona, e “ci veda”, ci raggiunga, ci tocchi? Tutta l’ arte del narratore che per gli inglesi è caro e familiare quanto Shakespeare, e che al pari del Bardo ci ha consegnato per sempre una galleria di figure indimenticabili, tenebrose e tenere, comiche e strazianti, mostra, in una infinita serie di gradazioni e sfumature, gli unici due esiti possibili a tale interrogativo, due città, parafrasandolo: da una parte il congelarsi della vita nell’odio, nella diffidenza, nell’isolamento di chi si affida o crede solo al mondo della “quantità” e – carnefice o vittima poco importa – se ne lascia assorbire: che si tratti della ricchezza economica, della violenza fisica o psicologica, del sottile sadico piacere del moralismo; quale sia lo status sociale o il successo dell’ impresa, il povero rabbioso e feroce, l’avaro ripiegato sul suo sterile tesoro, il sorvegliante crudele, la donna delle pubbliche cause con la sua camminata impettita e lo sguardo sprezzante, tutti costoro diffondono il deserto attorno e dentro sé stessi; dall’altra – e ancora una volta poco importa se si abbia a che fare con un orfano, un umile maniscalco o un generoso nobiluomo – è sempre possibile incontrare, con somma sorpresa, chi riesce ancora a puntare tutto sulla “qualità” della vita, sulla possibilità di amare ed essere amati come al bene più necessario di qualsiasi sicurezza, potere, e persino sopravvivenza alimentare.
Ed è proprio questo livello di umanità fragile ma schietta, che nonostante le tante ferite e i soprusi dei “tempi difficili” Dickens conobbe e raccontò con tanta schietta e spesso amara lucidità, a costituire una sorta di costante, discreta ma tenacissima, “mano tesa” al mistero più autentico dell’uomo, a quel “ne vorrei di più” che Oliver Twist balbetta dinanzi alla misera razione dell’orfanotrofio, alla tristezza di David Copperfield, alla possibile fatua vanagloria di Pip, alla solitudine di Scrooge.
È uno sguardo come quello della bisbetica ma affettusa zia Betsy, di Magwitch il prigioniero braccato, del signor Micawber, tanto indebitato quanto sorridente, del piccolo Tim, storpio e malato ma pieno di letizia e umorismo, che permette a chi altrimenti forse cederebbe come tutti alla legge della violenza e dell’ inganno, di non smettere di credere nell’amore, nel coraggio, nel dono di sé, e persino a chi parrebbe ormai del tutto perduto − Fagin la vecchia serpe, la folle signora Havisham, il seduttore Steenforth, Scrooge stesso − di poter ritrovare amicizia, comprensione, stima, il meglio di sé, e decidere, e magari gettare via l’odio come si fa con una veste sudicia, e tornare a ridere.
L’opera di Dickens non è un programma di denuncia, ma qualcosa di molto più ambizioso e perenne, una testimonianza corale di come l’uomo possa facilmente scordarsi di sé stesso, abbagliato o rassegnato, e di cosa sia l’unum necessarium a ridestarlo, accompagnalo e sostenerlo nella possibilità, da uomo adulto, di non perdere le “grandi speranze” del suo cuore di bambino, e costituire così a sua volta una casa per il mistero di coloro che lo incontreranno, per il loro bagaglio di ferite ed attese. Ciò per Dickens non aggira i problemi economici e sociali, anzi induce l’unico sprone a risolverli senza ricorrere a soluzioni altrettanto disumane, ma anzitutto e al di là di questo costituisce una risposa ben più radicale e potente a quella domanda che precede, comprende e supera tutti i bisogni particolari: sapere che nel cuore di qualcun altro c’è davvero una casa per noi.