Niente di nuovo sul fronte occidentale di Eric Remarque, pubblicato nel 1929 a più di dieci anni dalla fine della Grande Guerra, divenne uno dei primi best seller del Novecento, grazie anche al tono medio della sua prosa. Il libro narra in forma di diario le vicende di alcune reclute tedesche impegnate contro l’esercito francese e tradite nelle loro attese da chi avrebbe dovuto guidarle e invece infranse per sempre la loro speranza giovanile.
Riletto oggi a ottant’anni di distanza, getta luce su una problematica sempre attuale, quella del rapporto tra generazioni, tra una autorità che non dà ragioni e che nella pratica contraddice i valori che teorizza e una libertà incredula, scandalizzata e disillusa. La rivolta contro il padre che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento ha in questo inizio del secolo la sua origine?
Motivo di riflessione può essere l’ascolto di chi visse quegli anni di guerra a partire da una relazione positiva con la patria, con i genitori, con gli amici e con la natura. Le ferite della guerra sono state per i reduci anche mezzi dolorosi di conoscenza.
Paolo Baumer, il narratore, è di sentinella in una notte d’estate presso un chiostro silenzioso; fiaccato da una giornata di combattimenti ricorda i giorni trascorsi al suo paese, con gli amici ora diventati commilitoni.
Avevamo una predilezione per quei vecchi alberi, che ci attraevano con un loro fascino inesplicabile; per giornate intere, sdraiati alla loro ombra, ne ascoltavamo il sussurro. Seduti sulla riva abbandonavamo i piedi all’onda chiara e rapida del ruscello. Il puro odore dell’acqua e la melodia del vento nelle fronde dominavano la nostra fantasia; li amavamo molto davvero i vecchi pioppi, e l’immagine di quei giorni lontani mi fa battere il cuore, prima di scomparire.
Strano che tutti i ricordi che tornano abbiano due qualità. Sono pieni di silenzio; è questa anzi la loro virtù più forte, e rimangono tali anche se la realtà fu diversa.
Le immagini sono silenziose, proprio perché il silenzio qui è inconcepibile. Non vi è silenzio al fronte, e il dominio del fronte giunge così lontano che non ci avviene mai di uscirne. Anche nei depositi arretrati e nei quartieri di riposo il ronzio, il sordo brontolio del fuoco lontano persistono nelle nostre orecchie. Non ci si porta mai così indietro che si arrivi a non sentirlo più.
E il silenzio fa sì che le immagini del passato non suscitino desideri ma tristezza, una enorme sconsolata malinconia. Quelle cose care furono, ma non torneranno mai più.
E se anche ce lo restituissero, questo paesaggio della nostra gioventù, non sapremmo più bene che farne. Non saremo mai più legati al nostro dolce paese, come fummo un tempo.
Oggi nella patria della nostra giovinezza noi si camminerebbe come viaggiatori di passaggio: gli eventi ci hanno consumati; siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremmo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.