Paolo Sestito, responsabile del Servizio struttura economica di Bankitalia, è stato consigliere economico del ministero del Lavoro (2000-2006) e commissario straordinario e presidente dell’Invalsi (2012-13). Nel 2014 ha pubblicato, per le edizioni Il Mulino, La scuola imperfetta: Idee per spezzare un circolo vizioso, nel quale approfondisce alcuni dei temi trattati in questa intervista.
Sestito, un sistema di valutazione efficace è sicuramente necessario all’amministrazione per avere una visione dettagliata della complessità e progettare con cognizione di causa l’impiego delle risorse. Ma è altrettanto utile a chi la scuola la fa ogni giorno (docenti, dirigenti, amministratori…) e soprattutto a chi ne è il soggetto principale, cioè gli studenti?
Una buona valutazione serve al policy maker così come a chi opera nella scuola (dirigenti, docenti) e a chi della scuola è utente (studenti e loro famiglie). Naturalmente, cambiano per ciascuno di questi soggetti le finalità della valutazione e di questo si deve opportunamente tenere conto nel disegnare gli strumenti e i percorsi della valutazione. E’ anche per questo che sono concettualmente sbagliate le semplificazioni di chi pensa di poter far tutto con una unica leva (di solito pensando alle rilevazioni Invalsi come metro universale, ma lo stesso discorso varrebbe per altri singoli aspetti). Non fosse altro che per esigenze di risparmio, è giusto sfruttare le sinergie tra i diversi percorsi.
Nel nostro Paese, quando si parla di valutazione della scuola, si pensa infatti alle prove Invalsi, intese però come pura misurazione degli apprendimenti. Per quali altri aspetti possono servire?
Le rilevazioni Invalsi sugli apprendimenti sono in particolare utili a più fini: per standardizzare, in parte e in alcuni singoli momenti (penso agli esami di Stato), i giudizi sui singoli studenti; per dare un feedback alle singole scuole e alle singole classi, informandole sul punto di partenza e di arrivo, comparati, della media dei loro alunni, sì da innescarvi una tensione al miglioramento, che deve però necessariamente guardare ai processi in atto in quello specifico contesto in cui si opera e non focalizzarsi sui soli aspetti degli apprendimenti misurati da Invalsi; per misurare il cosiddetto valore aggiunto delle singole scuole e identificare quelle che vanno molto bene; all’opposto, per avere una prima identificazione delle scuole in difficoltà, distinguendo tra quelle le cui condizioni critiche derivano dal contesto e quelle ove servono interventi di profonda riorganizzazione interna, a partire dalla rimozione di un capo d’istituto inadeguato, aspetto di cui ancora troppo poco si parla; per misurare i grandi trend a livello di sistema, comparandoci con gli altri paesi ed esaminando — cosa che può farsi più facilmente concentrandosi su più piccoli campioni statistici e con misurazioni meglio mirate — questioni analitiche puntuali.
E’ molto più di quanto si immagini. Eppure mi pare che nel mondo della scuola ci siano ancora molte resistenze rispetto a valutazioni di altra natura…
Anche atteso che possono e debbono esservi delle sinergie, questa pluralità di fini e di strumenti è però sempre da tenere a mente, evitando di sovraccaricare di significati un singolo aspetto o un singolo indicatore.
Perché, quali conseguenze avrebbe questo?
Tornando all’esempio delle rilevazioni Invalsi, si rischierebbe altrimenti di ingenerare pericolose derive: se una certa prova Invalsi divenisse il metro di tutto, pur attesa tutta la maestria di chi quella prova costruisce nell’evitare che essa sia prevedibile e nozionistica (un aspetto che devo dire spesso rende le prove Invalsi comunque meno riduttive di molte delle prove tradizionalmente adoperate dai singoli insegnanti come verifica su un set delimitato di concetti e nozioni), si correrebbe il rischio del cosiddetto teaching to the test.
Che sarebbe?
Un eccessivo focus sull’addestrare gli studenti a rispondere a singoli quesiti; similmente, si correrebbe il rischio di esacerbare le tendenze al cosiddetto cheating, ovverosia la tendenza a copiare (magari con l’ausilio degli stessi docenti) in sede di effettuazione della prova.
Normalmente si pensa a un sistema di valutazione come a uno strumento in grado di stilare una graduatoria delle scuole che favorisca così la scelta delle famiglie per la scuola migliore. Ma la scelta delle famiglie potrà essere realmente libera, date le caratteristiche del sistema nazionale di istruzione del nostro Paese?
La scelta delle famiglie nel sistema educativo, lo sviluppo al suo interno di logiche di “mercato”, che “premiano” la scuola che fa bene e “puniscono” quella che fa male spostando iscritti e risorse dall’una all’altra, sono temi a mio parere sono spesso esaltati o demonizzati all’eccesso.
In che senso?
La mia impressione è che affidare completamente a queste logiche il governo del sistema scolastico sia impossibile, quantomeno nei livelli scolastici inferiori: troppo forti sono gli ostacoli alla mobilità (ostacoli ve ne sono anche a livello universitario, ma per i primi gradi scolastici la mobilità dello studente richiederebbe una spesso impossibile mobilità dell’intera famiglia!); a muoversi sarebbero perciò solo le persone più sensibili alla qualità del servizio, col rischio che le scuole peggiori, pur perdendo solo pochi iscritti, perdano però quelli più motivati e in grado di esercitare una pressione interna al miglioramento.
E quindi come si può fare?
Le logiche di mercato vanno combinate con altri meccanismi — di stimolo al miglioramento da un lato, di controllo ispettivo e di intervento anche gerarchico dall’altro — che consentano di intervenire su una scuola prevenendone i rischi di deriva prima di scoprire che essa è stata abbandonata da alcuni dei suoi utenti, lasciando gli altri nelle pesti.
E’ un rischio prevedibile che fa parte del gioco, non crede?
In ogni caso è da considerare che qualsiasi meccanismo competitivo, all’interno del sistema scolastico, va comunque adeguatamente costruito: si tratta di supportare l’eventuale mobilità degli utenti (anche a livello di università, ciò richiede ad esempio politiche a sostegno degli studenti fuori sede, specie se provenienti da famiglie meno abbienti); di rendere disponibili, e comparabili, le informazioni sulla qualità delle diverse scuole (in primis garantendo che i risultati degli esami di stato siano comparabili tra le diverse scuole). Se non si fa attenzione a questo, il rischio è che la competizione venga distorta, per cui ad essere scelta non è la scuola migliore ma quella che più facilmente garantisce l’ottenimento d’un certo diploma oppure quella che furbescamente riesce a farsi una pubblicità ingannevole.
In che modo, allora, la scelta delle famiglie potrebbe aiutare lo sviluppo del sistema di valutazione?
Così come i controlli e i meccanismi di standardizzazione possono favorire le comparazioni e l’emulazione competitiva, i giudizi espressi dalle famiglie e dagli utenti possono contribuire a incorporare quella soft information sull’andamento di una scuola che altri indicatori di performance, per quanto standardizzati, potrebbero non fornire; essi andrebbero perciò opportunamente inglobati negli indicatori che chi ha poteri di controllo ed ispettivi, ma anche chi opera nella singola scuola, dovrebbe usare per capire se le cose vanno bene o vanno male.
Questo sistema di valutazione potrà raggiungere risultati oggettivi, comparabili realmente tra scuola e scuola, facendo emergere il valore aggiunto nel percorso scolastico di ogni studente rispetto al suo ingresso nella scuola, tenuto conto del fatto che ogni singolo studente è una persona (e non una macchina) e che quindi è caratterizzato da tempi di crescita, stili di apprendimento, condizioni storiche, familiari e sociali del tutto personali?
Prima ho sottolineato come nel valutare una scuola bisogna tenere conto di diversi aspetti e combinare vari indicatori. Combinarli rende meno unilaterali le valutazioni ed impedisce l’insorgere di quelle derive al teaching to the test — o comunque d’una eccessiva focalizzazione su singoli aspetti della performance — altrimenti distorsive. Questa è la prima garanzia della non burocraticità della valutazione, del suo rispetto dell’unicità della persona e dello sforzo, che necessariamente deve essere individualizzato, allo sviluppo delle potenzialità del singolo studente.
E poi?
Naturalmente ci sono vari elementi tecnici e politici nella costruzione delle singole misure e dei diversi indicatori che devono essere tenuti a mente a tali fini. Si deve complementare l’attenzione agli apprendimenti “disciplinari” — comunque da arricchire rispetto ad oggi, considerando ad esempio anche le competenze scientifiche, a rischio altrimenti di essere trascurate nella vita quotidiana delle scuole — con l’attenzione allo sviluppo dello spirito civico dei futuri cittadini (non penso, si badi bene, a misurare le conoscenze di educazione civica, bensì a misurare l’effettivo civismo, o l’assenza dello stesso, nei comportamenti quotidiani all’interno delle scuole).
Si deve porre l’attenzione sullo sviluppo di lungo termine delle conoscenze e delle competenze — quindi sulle potenzialità — degli alunni e si deve tener conto dei loro punti di partenza e quindi ragionare nei termini di quello che gergalmente viene definito valore aggiunto.
In sostanza, un sistema di valutazione così costruito sarebbe in grado di identificare le scuole nelle quali la crescita umana e culturale degli alunni è più “garantita”?
Mi lasci dire che la combinazione di più elementi e le considerazioni sui singoli indicatori ora ricordate non devono esser viste come un modo un po’ più intelligente di stilare una graduatoria tra scuole. Stabilire chi viene prima e chi viene dopo in una ipotetica graduatoria lascia il tempo che trova.
Perché?
Lascia il tempo che trova perché, tranne agli estremi, per le scuole che vanno cioè molto bene o molto male per più periodi e per una pluralità di aspetti, le graduatorie rischiano di essere molto instabili. Come ho già avuto modo di dire nel mio contributo “Scuola buona, scuola imperfetta e scuola da migliorare“, è positivo che oggi si pensi ad implementare il Regolamento sul sistema di valutazione. Più che sulla pubblicazione di un profluvio di rapporti in forma semilibera a cura delle singole scuole, io però punterei sul coinvolgimento di tutti gli stakeholders nello sviluppo dei processi di valutazione all’interno delle singole scuole; anche per quanto attiene la pubblicizzazione dei risultati, darei priorità alla definizione di un sistema di certificazione della qualità che riservi la certificazione d’un rating elevato a quelle scuole con punteggi elevati per più anni su una pluralità di indicatori e positivamente giudicate anche a seguito di una visita ispettiva.
E le scuole con punteggi bassi per più anni? In alcuni Paesi tolgono ad esse i finanziamenti o addirittura le chiudono…
Ciò che soprattutto oggi mi sembra prioritario, nell’attuazione di quel Regolamento, è l’identificare le scuole in condizioni critiche (compito attribuito all’Invalsi), non tanto per metterle alla gogna sulla base d’una qualche graduatoria, quanto per farle oggetto d’un check ispettivo accurato, di misure di possibile sostegno rafforzato (con apposite risorse) e però anche di un intervento di riorganizzazione, che parta dalla possibile rimozione d’una dirigenza inadeguata. A tali fini occorre perciò poter distinguere tra scuole in condizioni critiche per via delle difficoltà del contesto e scuole che siano tali per inadeguatezza del proprio operare.