Parlare o scrivere di storia, oggi, in Italia, può essere quasi disperante. Non si comprende bene quale senso o quale utilità possa avere ricordare eventi fondamentali della vita italiana e ancor meno quale risultato si possa ottenere dalle commemorazioni che si preparano per il 17 marzo 2011, centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.
L’italiano medio, specie se under 40, sa bene che la propria ignoranza non è cosa buona ma ciò non lo distoglie dal congetturare che Giacomo Matteotti possa essere uno dei compagni di Garibaldi: altrimenti per quale motivo strade e piazze dedicate ai due personaggi sono sempre così vicine tra loro? E va detto che questa non è una boutade ma una frase realmente proferita da persona laureata e di ottime capacità professionali.
E allora a che pro continuare a scannarsi sul Risorgimento, sul fascismo, sulla Resistenza quando tutte queste parole di condanna e di revisione si perdono così, “come lacrime nella pioggia”, come direbbe il buon Roy Batty? Come il nostro amico replicante, noi che amiamo la Storia, possiamo dire: «Ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione…». Perché noi la Storia italiana l’abbiamo vista sui libri, l’abbiamo sofferta e vissuta, cento, cinquanta, trent’anni dopo l’accadimento dei fatti. Come comunicare questo pathos? Recandosi nei luoghi dove la Storia è passata nella sua forma più furibonda, quella della guerra.
Magenta, ad esempio, non è lontana da Milano. Qui, il 4 giugno 1859 venne combattuta la battaglia che permise la cacciata degli austriaci dalla Lombardia, un’impresa impossibile senza la massiccia partecipazione dell’esercito francese, comandato da Napoleone III. Chi lo desidera può verificare che il vero ostacolo, per i francesi, non era tanto il Ticino ma il Naviglio, che scorre rapido e vorticoso fra argini ripidi e lisci. Il viaggiatore può vedere che i tre ponti che traversano il canale sono ancora assai simili a com’erano 150 anni fa per poi recarsi nel centro della cittadina e capire come la massicciata ferroviaria costituisse la principale linea di difesa austriaca contro i francesi che arrivavano da nord. Fu proprio lungo la ferrovia che vennero scavate le fosse comuni per centinaia e centinaia di morti accatastati uno sull’altro. Casa Giacobbe, appena oltre la ferrovia, è ancora lì, crivellata di colpi.
Spostiamoci sul Lago di Garda, poco sotto Sirmione. Quante volte abbiamo visto una grande torre ergersi proprio nei pressi dell’uscita dell’autostrada! Quella torre sorge sulle colline che videro la battaglia di San Martino, il 24 giugno 1859 e si può immaginare cosa dovettero provare i soldati piemontesi che arrancavano nel calore del giorno, completamente esposti al tiro radente degli austriaci che difendevano quelle posizioni. Quale sia stato il loro destino si può vedere nell’ossario: molti teschi recano fori di proiettili. In auto si può passare accanto alle fattorie che furono i capisaldi della difesa e gli epicentri della battaglia ma è bene tenersi alla larga dalle proprietà private perché i cani da guardia sono liberi e forti.
La terribile grandiosità della battaglia si può comprendere solo salendo sulla torre e guardando verso la Madonna della Scoperta e, ancora più lontana ma ben visibile, verso la Spia d’Italia, la torre in pietra che fu il vero obbiettivo di Napoleone III durante quella giornata. Si raddoppi la distanza fra Solferino e San Martino e avremo l’estensione del campo di battaglia e si capirà come, quel giorno, vi fossero ben 200.000 uomini per parte (sì, 400.000 uomini in tutto) a massacrarsi nella più titanica delle battaglie postnapoleoniche.
Ben presto ogni ricordo scomparirà anche di Castelfidardo dove l’esercito pontificio si immolò il 18 settembre 1860 in un’impari lotta contro i piemontesi. Dei caduti pontifici non resta il minimo ricordo ma è inevitabile che anche il decrepito monumento eretto in era fascista farà la stessa fine e tutto sarà finalmente avvolto nel Nulla. Qualche anno fa per raggiungere quel sito, in frazione Crocette, era consigliabile il fuoristrada, tanto è abbandonato e negletto.
Ben diversa la situazione nelle “trincee delle frasche” sul Carso. Di quelle postazioni resta ancora qualcosa ma, al contrario, è ben tenuta viva la memoria dei combattimenti della Grande Guerra a San Martino dove il viaggiatore è accolto da una lapide «Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto…» . È il caro, immenso, umanissimo Giuseppe Ungaretti che ancora ci saluta e ci accompagna, come se il tempo non fosse mai passato.
Un salto nel tempo e nello spazio ci porta all’8 dicembre 1943 quando la Patria era ormai morta e distrutta, seppellita sotto le macerie ma ancor più sotto la vergogna di una sconfitta ignominiosa che poneva fine ai sogni di intere generazioni di statisti, da Cavour a Mussolini, tesi a rendere l’Italia una grande potenza militare. Da tre mesi l’Italia si era arresa agli eserciti alleati e il suo esercito era stato annientato dall’ex alleato tedesco. In un paese occupato da armate straniere vi furono solo poche migliaia di uomini disposti a battersi e a morire per riscattare un popolo intero, passato in pochi anni dal tronfio orgoglio dell’impero etiopico alla disfatta più irrimediabile.
Allievi ufficiali, bersaglieri e fanti del 67° reggimento di fanteria partirono dalle caserme di Maddaloni e avanzarono in direzione di Cassino. Lungo la strada la gente, vedendo che andavano a combattere, li incitava a disertare ma proseguirono imperterriti verso Montelungo. Il combattimento fu durissimo e gli italiani, non sostenuti dagli americani dovettero ritirarsi dopo aver subito perdite pesanti ma l’Esercito italiano era risorto dalle sue ceneri e tornò in linea pochi mesi dopo. Chi percorra la Casilina troverà un grande spiazzo con un museo di mezzi militari e un piccolo cimitero. Anni fa vi erano lavori in corso per ridare un decoro a quelle tombe ma pochissimi italiani hanno coscienza che la rinascita del loro paese è cominciata da quegli uomini che andarono a morire sapendo di essere una ristrettissima minoranza di folli idealisti.
Gente che credeva ancora nell’onore come le migliaia di prigionieri della Repubblica Sociale rinchiusi nel campo di concentramento di Coltano, vicino all’aeroporto di Pisa. Nell’estate del 1945 furono tanti, ma proprio tanti i giovani che, catturati alla fine delle ostilità furono posti dietro un filo spinato, all’addiaccio, spesso senza vestiti e senza cibo, unicamente perché avevano scelto la parte perdente e (va detto) profondamente sbagliata perché alleata di fatto del nazismo. Ma anche quei ragazzi seppero tenere alto l’onore degli italiani, dando prova di una resistenza morale inattesa dai vincitori. Fra quei prigionieri vi era anche il grande Walter Chiari e tanti altri giovani talenti del mondo dello spettacolo che seppero improvvisare show esilaranti per seppellire “con una risata” l’oppressione di quei giorni.
A questo pellegrinaggio manca ancora una tappa fondamentale: le Langhe del “partigiano Johnny”, i sentieri e i boschi resi immortali dall’epopea narrata da Giuseppe Fenoglio. Bisognerà, un giorno, tornare su quei luoghi, mangiare le castagne, unico cibo disponibile a coloro che non vollero arrendersi alla forza militare tedesca. E, forse, proprio in quella semplicità, si arriverà a comprendere la forza morale di quei partigiani che scelsero «la parte che faceva meno schifo» per far diventare l’Italia «una nazione più piccola ma più seria». Un’impresa che riuscì alla generazione che aveva vissuto la guerra ma che, oggi, non sembra più far parte di un’eredità che valga la pena di raccogliere.