Di Aldo Gastaldi detto “Bisagno”, comandante della divisione partigiana Garibaldi “Cichero” è già stata pubblicata una breve biografia su queste pagine nel 2013. Si tratta di una figura così straordinaria da essere insignita (oltre che con la medaglia d’oro al valor militare) con due titoli apparentemente in contraddizione tra loro: oltre che essere denominato “primo partigiano d’Italia” è stato inserito nell’agenda pastorale liturgica di servizio e di memoria della Diocesi di Genova ed annoverato tra coloro che hanno onorato la Chiesa genovese nel XX secolo.
Di questo giovane eroe, morto a soli ventitré anni, non si può certo dire che sia ignorato. Su Bisagno esiste già una corposa bibliografia e due documentari, rispettivamente di Mario Ciampolini (2013) e di Marco Gandolfo (2015) ma è un fatto che non sia conosciuto abbastanza, specie dai giovani: perché di fronte a un uomo di tale forza e purità, deciso a combattere contro ogni sopraffazione cercando sempre il bene comune, la prima domanda che sorge spontanea a chi lo incontra è “si può vivere così?”. Dovrebbe essere il suo volto e non quello di un ben più mediocre e spietato “Che” Guevara a campeggiare sulle magliette dei giovani. Inoltre, sulla sua figura pesa ancora come un macigno l’enigma della sua morte: un giallo irrisolto e inesplicabile.
I fatti sono noti. Dopo la Liberazione, Gastaldi accompagnò in Veneto alcuni partigiani che avevano disertato dalla Divisione repubblichina “Monterosa”. Durante il viaggio di ritorno, Bisagno cominciò a comportarsi in modo strano, regalando soldi e distribuendo documenti riservati: proprio lui, genovese e prudente come un serpente. Come se non bastasse salì sul tetto del camion su cui si trovava, e all’altezza di Desenzano cadde e restò schiacciato dalle ruote del rimorchio. Pare che il motivo di tale comportamento eccentrico vada rintracciato in un caffè offerto a Bisagno da un misterioso personaggio. Più che sufficiente per ipotizzare, come fa lo stesso Pansa nel suo ultimo libro, Uccidete il comandante bianco. Un mistero nella Resistenza (Rizzoli 2018), un omicidio perpetrato da chi voleva morto Aldo Gastaldi, per togliere di mezzo un ostacolo alla presa del potere da parte di quei comunisti che proprio il prestigioso comandante partigiano (cattolico) aveva osteggiato sempre più apertamente.
Prove certe non ne sono mai state trovate e lo stesso Pansa ammette di non averne: ma ciò non basta a legittimare l’Anpi che, per bocca di un suo rappresentante, si è doluta che vi siano ancora sospetti sulla sua morte “perché noi non accettiamo il sospetto: perché il sospetto è un veleno devastante che ci dividerà nel tempo … il sospetto è un veleno inaccettabile” (così Giorgio “Getto” Viarengo a Chiavari nel 2016). Parole dette dopo settant’anni dai fatti di Desenzano con una faccia tosta davvero rimarchevole. Meglio sarebbe stato dire: “Per settant’anni abbiamo ignorato le troppe incongruenze sulla morte di Bisagno e ora è troppo tardi per capire cosa sia effettivamente accaduto. Accettiamo le conseguenze storiche dell’inazione dell’Anpi”.
Per questo il libro di Giampaolo Pansa rappresentava un’occasione straordinaria per capire e approfondire l’argomento, proprio perché si tratta di una ferita ancora aperta. Inoltre proprio Pansa è tra i più titolati a trattare di Bisagno e questo per una passione storica inesausta, maturata fin dall’infanzia, fin da quando in un giorno d’inverno del 1945 aveva visto il partigiano Antonio Olearo “Tom” entrare in Casale Monferrato, marciando a piedi nudi nella neve verso il luogo della sua fucilazione. La tesi di laurea di Pansa (datata 1957) è da sempre disponibile in libreria col titolo Guerra partigiana tra Genova e il Po: più di 500 pagine di testo, con uno “tsunami” di note e riferimenti bibliografici da far impallidire più di uno storico paludato. Un libro stupendo, poco leggibile per il grande pubblico ma di valore inestimabile per chi voglia capire e approfondire.
E sempre Pansa, nella sua testarda indipendenza, è stato il protagonista di una svolta storiografica paragonabile a quella di Renzo De Felice sul fascismo, narrando in diversi volumi gli eccidi compiuti dai partigiani comunisti dopo la Liberazione. Anche qui non si trattava di improvvisazione: fin da ragazzo Pansa voleva studiare le fonti della Repubblica Sociale venendo apostrofato come “giovane fascista” ma venendo incoraggiato agli studi da quel gran signore e grande uomo che fu Ferruccio Parri. Con Il sangue dei vinti Pansa iniziò una forma narrativa nuova e che ebbe indubbio successo: non più un testo scientifico ma un dialogo fra l’autore e un interlocutore con intermezzi gastronomici, inevitabili ripetizioni e, con l’andar del tempo, sempre maggior ricorso al boccaccesco a all’osé.
Viene da chiedersi il perché di un simile cedimento e le risposte possono essere le più disparate. Di rimando alle critiche Pansa etichetta come bacchettoni coloro che esprimono perplessità su tali interludi narrativi, ricordando che, nella vita partigiana il sesso, possibilmente libero, era una necessità dati i tempi perigliosi. Il che è senz’altro vero, tanto che Vittorini e Fenoglio parlano senza imbarazzi di sesso nei loro romanzi. Va anche detto, però, che ne parlano solo in minima parte e con l’ironia e la leggerezza dei grandi scrittori, specie l’immenso Beppe Fenoglio che nei suoi Appunti partigiani descrive in poche righe come il protagonista “stamburi” su una brandina una giovane staffetta mentre è memorabile la drammaticità e brevità dell’amplesso descritto in Uomini e no di Vittorini.
Ma Vittorini e Fenoglio sono grandi scrittori, mentre Pansa era un grande storico. “Era”: e questo non perché abbia rinunciato a inserire le note bibliografiche nei suoi libri, inducendo a dubitare della veridicità di quanto affermato. Spavaldo com’è, ha sempre sfidato chiunque a smentire i suoi scritti e, da quanto mi risulta, ben pochi ci hanno provato e nessuno ci è mai riuscito. Su questo Pansa ha sempre dimostrato di possedere l’accanimento e il coraggio morale del giovane studioso lodato da Ferruccio Parri. Il vero problema, nell’ultimo libro, non è quanto viene scritto ma quanto viene taciuto.
Uccidete il comandante bianco è un’occasione perduta da parte di un grande storico che sembra aver rinunciato a essere tale. Perché non è ammissibile parlare di Bisagno e del suo leggendario coraggio senza descrivere nemmeno una delle sue azioni degne di un romanzo di Salgari: non è ammissibile trattare dell’offensiva del dicembre 1944 contro la “Cichero” e non descrivere come Bisagno fece rifugiare i suoi uomini in grotte e caverne perfettamente mascherate per dieci giorni, anticipando la tattica dei vietcong; non è ammissibile parlare delle virtù di Gastaldi concentrandosi sul fatto che era vergine e casto come se fosse questo il punto fondamentale e non citare nemmeno una sua frase di impegno civile e cristiano come “Noi non abbiamo un partito, noi non lottiamo per avere un domani un cadreghino, vogliamo bene alle nostre case, vogliamo bene al nostro suolo e non vogliamo che questo sia calpestato dallo straniero, dobbiamo agire nella massima giustizia e liberi da prevenzioni”. Oppure: “Continuerò a gridare ogni qual volta si vogliano fare ingiustizie e griderò contro chiunque, anche se il mio grido dovesse causarmi disgrazie o altro”.
Quel che delude profondamente in questo ultimo libro di Pansa è proprio ciò che manca e che lui certamente conosce bene; ed è la bellezza, tragica, di quegli anni, l’assunzione di responsabilità da parte di una consistente minoranza mentre la maggioranza si imboscava; il ruolo dei cattolici nelle formazioni partigiane, numerosi ovunque; il parlare sempre dei partigiani comunisti, raramente degli autonomi, come Enrico Martini “Mauri” e mai di Giustizia e Libertà che diede vita alle formazioni più combattive e più efficienti di tutta la guerra partigiana. Così come viene descritta da Pansa la guerra partigiana è uno sporco affare tra fascisti e comunisti il che è, precisamente, la “vulgata” voluta e approvata da fascisti e comunisti che così si legittimano reciprocamente. Con una eccezione, secondo Pansa: Bisagno per l’appunto. Ma le cose non stanno così e Pansa possiede conoscenze così profonde e consolidate che proprio a lui e al suo spirito libero spetterebbe un compito arduo ma vitale per la memoria storica italiana: scrivere una storia della Resistenza tale da far risaltare il suo ruolo militare che fu essenziale per abbreviare la guerra; “pesare” le diverse componenti della Resistenza rilevando come i comunisti arrivarono tardi e miravano più a vincere il dopoguerra, mentre autonomi e giellisti facevano la guerra partigiana vera contro i nazifascisti.
E, alla fine, raccontare come lui solo sa, senza divagazioni degne della “filosofia del boudoir” di Sade, le vite di uomini di cui oggi sappiamo solo i nomi e che tra poco dimenticheremo: Balbis, Dacomo, Contini, Chilesotti, i fratelli Dal Din, i fratelli Di Dio, Ebat, Enriques, Martelli Castaldi, Olivelli, Pierobon, Puecher e tanti altri. Esaminando, sia pure, in breve, le biografie di 504 medaglie d’oro al valor militare della Resistenza ne ho individuate più di 80 conferite a cattolici senza contare i preti come Borghi, Pappagallo o Moretti. Il campo è immenso, le persone competenti poche e quelle con volontà di farlo ancora meno. La parola d’ordine, se è permesso riferirlo, è tipicamente ligure e non dovrebbe dispiacere a Giampaolo Pansa: “poche musse!”