Premiare l’eccellenza! Curarla, prestarle attenzione, favorirla ed infine premiarla. Sembrano essere queste le nuove parole d’ordine della politica scolastica. Di questo si parla nei buoni salotti dell’alta pedagogia ed anche nelle stanche sale insegnanti di molte scuole. Se ne parla con convinzione. A volte con un tocco d’enfasi, quasi a volersi liberare finalmente da quell’equivoco egualitarista che, al di là delle buone intenzioni, tanto danno ha fatto nel recente passato.
Il “siamo tutti uguali” e “a tutti devono essere date le stesse opportunità” nei fatti si è trasformato nel più grande equivoco della nostra storia scolastica recente. Il riferirsi poi alla straordinaria avventura pedagogica ed umana della scuola di Barbiana, il prenderla a modello, a riferimento come paradigma di questo egualitarismo, è stato un errore grave di superficialità e di non comprensione. Bastava ascoltare con più attenzione le parole di quel prete toscano per capire che si stava fraintendendo il suo messaggio e che “fare parti uguali fra diseguali è ingiusto” e dunque sbagliato.
A tutti deve essere dato secondo necessità, rispettando le caratteristiche, le difficoltà e le potenzialità di ognuno. A partire da quei sei piccoli montanari di Barbiana, timidi ed ignoranti. Fare scuola con loro voleva dire occuparsi, farsi carico, uno per uno di Michele, di Gosto, di Carlo, di Silvano, di Giancarlo e di Aldo. Considerarli persone per quello che erano, cioè diversissimi e non appiattirli su un modello pedagogico prestabilito. Perché, per dirla sempre con don Milani, la pedagogia “ha il nome e cognome di ogni ragazzo”.
Non a tutti la stessa pappetta quindi, al minimo sindacale, ma il massimo possibile perché ognuno tirasse fuori il meglio di se stesso, per librarsi nel cielo alto della vera cultura. Perché solo questa, il sapere, il “possesso della parola” li avrebbe liberati da quella situazione di subalternità e li avrebbe emancipati. Invece noi, rivoluzionari discount, cosa abbiamo fatto? Abbiamo cercato di scimmiottare Barbiana senza capire che “stare dalla parte degli ultimi”, come ha ben sintetizzato con efficacia Neera Fallaci nel suo libro su don Milani, non dovesse significare escludere una parte dell’universo, i primi.
Quella scelta di campo doveva invece semplicemente dare più attenzione a chi la scuola non aveva mai preso in considerazione: gli ultimi, appunto. E ancor meno doveva essere considerato un appiattimento sui livelli più bassi. Questo è stato l’equivoco: occuparsi finalmente dei più poveri e deprivati culturalmente è stato frainteso, da una parte, come disinteresse ai più dotati, dall’altra come abbassamento dell’offerta formativa. I contenuti, i metodi ed anche il linguaggio è stato limitato a quel minimo che, si riteneva, potesse essere compreso da loro. Fregandoli così due volte: una prima volta ci aveva già pensato il loro contesto socio familiare e la seconda volta ci pensava l’insegnamento a bassa intensità del loro maestro.
Quante volte nelle scuole popolari o nelle scuole pubbliche dei quartieri più poveri si è visto un insegnamento al limite della sopravvivenza culturale? Ci si accontentava della letteratura popolare e del racconto di qualche storiellina. La grande cultura non veniva affrontata perché ritenuta inadatta ai più poveri. Chi ha conosciuto invece Barbiana sa che non era così per loro. In quella scuola si facevano lezioni serie e rigorose: si parlava di letteratura, di storia, di filosofia, di scienze, di astronomia, di politica e di tanto altro. Si ascoltava musica colta, si leggevano i giornali e si parlavano le lingue, in particolare il francese ed il tedesco.
Per preparare ad esempio una visita a Milano, ospitati della moglie del sig. Pirelli, hanno trascorso mesi e mesi a studiare e ad ascoltare la Bohème perché era prevista una serata alla Scala con in cartellone questa opera. Non canzonette, ma un’opera lirica! E a sentire loro si erano anche appassionati. Basta andare ancora oggi in quella canonica nel Mugello per vedere appeso al soffitto un lenzuolo arrotolato: serviva come telone su cui proiettare dei film. E sapete che film sono stati proiettati? Roma città aperta, Ladri di biciclette e La corrazzata Potemkin. Da non credere, vero?
Don Milani era così convinto che la scuola fosse una cosa seria che la definiva addirittura “sacra”, seconda solo alla Chiesa. Importante per tutti, nessuno escluso. Diceva: “un ragazzo buttato nel mondo senza istruzione è come un passerotto buttato in aria senza ali”.
Chiarito quindi che la scuola è decisiva, che deve essere personalizzata e puntare al massimo della qualità per vedere fiorire eccellenze, mi rimane da porre una domanda. Siamo davvero sicuri che per premiare l’eccellenza si debba fare riferimento ai risultati ottenuti? Dobbiamo davvero tenere in considerazione il voto con cui la scuola certifica i risultati? Il ministero su questo non ha dubbi. Infatti si premiano le lodi alla maturità. Con un tantum di denaro (cosa c’è di meglio per premiare del dio denaro?) si riconosce pubblicamente un successo, un’eccellenza.
Domanda: se il parametro è arrivare a quel risultato, alla lode, come la mettiamo con chi è meno dotato? Per esempio un disabile cerebroleso? O più semplicemente con un dislessico? Loro sicuramente non potranno mai arrivare alla lode. Loro sono esclusi in partenza da questa gara al risultato, E allora? Se vogliamo considerare la scuola veramente di tutti allora dobbiamo spostare il riconoscimento dell’eccellenza da un piano meno “obiettivo”. Forse dobbiamo pensarla anche su un altro livello, più soggettivo e certamente più complesso nel riconoscerlo: quello dei risultati raggiunti secondo le proprie possibilità.
L’eccellenza deve essere considerata partendo dalle condizioni con cui lo studente ha iniziato. Non esiste solo quella certificata dal voto finale, sulla cui obiettività ci sarebbe comunque da dire, ma anche quella individuale raggiunta con il massimo dell’impegno possibile. A fianco dell’eccellenza certificata deve esserci anche lo spazio per premiare e gratificare lo sforzo di chi, meno fortunato, raggiunge la sua eccellenza. Meno visibile, ma della stessa buona pasta.