Qual è lo stato di salute della scuola italiana? Rispondere a questa domanda è terribilmente complicato, perché complesse sono le angolature da cui guardare il fenomeno, ma ancor più perché occorrerebbe prima definire quali sono i compiti della scuola in una società sempre più complessa.
A cosa serve la scuola allora, è la prima domanda che occorre porsi.
La risposta non è ovviamente univoca e soprattutto non è a-storica: nel periodo pre-unitario l’istruzione aveva per sua natura un compito di selezione sociale; tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la scuola servì a formare le classi dirigenti per dare slancio al nascente Stato unitario italiano; nel 1946 la scuola in Italia serviva essenzialmente a ridurre drasticamente il tasso di dispersione scolastica (oltre il 60 per cento della popolazione) causata dalle due guerre mondiali e, ancora, ad orientare al lavoro le grandi masse di giovani e meno giovani che appunto alle due guerre mondiali avevano sacrificato lunghi anni della propria vita.
Se andiamo più avanti negli anni e cerchiamo di rispondere alla stessa domanda diventa tutto più complicato. Ha ragione Scotto Di Luzio quando dice che negli anni Settanta del Novecento il rapporto tra scuola e politica si spezza e la politica non ha più un “progetto” politico sulla scuola: i partiti politici sono spiazzati dalla scuola di massa (come sono spiazzati da altri fenomeni: dal femminismo all’ecologismo…) e non hanno la capacità di elaborare un progetto politico di prospettiva.
Del resto il 1977 è considerato da molti costituzionalisti la fine dei trenta anni gloriosi di attuazione della Costituzione: quando si finisce di colmare i ritardi si spegne l’impeto creativo. La politica occupa tutto per non perdere il potere e i partiti politici che sino ad allora erano stati i protagonisti indiscussi dello sviluppo culturale, economico e sociale del Paese diventano occupatori pervicaci del potere, perché incapaci di mantenerlo con i progetti.
Se guardiamo alla storia recente del paese è andata così su tutti i settori: dallo sviluppo industriale a quello istituzionale. Basti pensare a cosa sono state le Regioni all’inizio della loro attuazione, alla stagione portentosa della programmazione, dei distretti industriali, per ripiegare di lì a poco all’occupazione del potere, sino a sfociare nell’era di Tangentopoli e nella prima grande reazione popolare a tale occupazione.
Dunque: la scuola ha bisogno di un grande progetto politico per svilupparsi e per essere utile al Paese.
Il progetto dell’autonomia scolastica era, da questo punto di vista, un grande progetto politico di rilancio della scuola e della sua funzionalità rispetto allo sviluppo del Paese.
In una società in rapida e complessa trasformazione affidare non più ad un centro ministeriale politicizzato, asfittico e improduttivo, bensì alla “realtà” pulsante della comunità scolastica le leve del suo sviluppo, pur all’interno di un framework nazionale, era un progetto politico: voleva dire scommettere sulla capacità e creatività della realtà tutta di interpretare i propri bisogni e dare ad essi una risposta.
In una società che già si immaginava sarebbe stata consegnata non più alla stabilità e all’immobilità (i mestieri tramandati da padre in figlio; un unico mestiere svolto per tutto l’arco della vita; una mobilità esile, etc.) ma alla rapida trasformazione tecnologica e sociale, il progetto dell’autonomia pareva (e pare ancora oggi) l’unico progetto politico possibile perché l’unico connesso in maniera inestricabile con fantasia e la creatività individuale.
Le società democratiche della prima metà del Novecento non esistono più e quelle attuali poggiano i loro presupposti su cittadinanze nuove (i confini territoriali non esistono, i concetti tradizionali si dileguano) e in continua trasformazione.
Ecco perché l’autonomia è un grande progetto politico: non vuol dire che le scuole possono fare quello che vogliono ma che, invece, diventano protagoniste del loro sviluppo perché capaci di intercettare i bisogni reali dei propri utenti e dare loro una risposta più adeguata.
Solo chi non è mai entrato dentro il ministero dell’Istruzione e non ha mai avuto a che fare con la modalità asfitticamente burocratica che vi regna, può essere convinto che i ministeri siano capaci di gestire lo sviluppo di una società del futuro. Possono fare il loro onesto mestiere: dare obiettivi (sempre più dipendenti dall’Ue e dal contesto internazionale), controllare, finanziare.
Perché non ha funzionato?
Perché la burocrazia ha preso il sopravvento sulla politica e ritiene (evidentemente non a torto) che l’unico modo che ha di perpetrare se stessa è quella di dirigere tutto centralisticamente, pur non conoscendo nulla. Le direttive e le circolari del Miur ormai vivono in un loro mondo che non ha più connessioni con la realtà. Come noto, poi, la burocrazia aumenta la burocrazia e le nostre povere scuole (e i nostri poveri dirigenti scolastici) sono sommersi da inutili e pervasivi adempimenti burocratici senza più poter fare il loro lavoro.
Oggi la giornata di un ds è occupata per il 5 per cento dai contenuti educativi e per il 95 per cento dal tentativo di rispondere alle molestie burocratiche del ministero e delle sue circolari: siamo arrivati all’assurdo che ai dirigenti viene chiesto il curriculum vitae per chiudere la procedura di valutazione. Cioè il Miur chiede il curriculum a chi ha ingaggiato, appunto, sulla base del suo curriculum.
Se non liberiamo la scuola da tutto ciò non c’è futuro: solo carte, carte e ancora carte.
Ecco perché l’autonomia, con tutti i suoi difetti e i suoi limiti rimane l’unico grande progetto politico all’orizzonte del futuro.