“Questa nostra era di restaurazione non ci deve illudere sulle dimensioni della crisi nella quale, insieme con il mondo, si trova coinvolta anche la Chiesa. Quadri e forme instaurate di recente possono non avere una lunga durata: dietro di loro, a distanza ravvicinata, il ghigno di una cruda volontà di distruzione minaccia di annientarle tutte”.
Lo sguardo profetico di Hans Urs von Balthasar non aveva timore di forzare fino al paradosso estremo il suo giudizio sui rischi di un certo trionfalismo cattolico tradizionale, che poteva legare a sé le grandi masse senza riuscire a scendere nella profondità del cuore della persona. Adunate oceaniche e conformismo esteriore delle pratiche devozionali, uniti alla ricerca di un sostegno del potere, per fare della religione lo strumento di una rigenerazione morale dello spirito delle nazioni, consentivano di mantenere in piedi un’egemonia che minacciava però di ridursi a un involucro povero di sostanza.
Si pensava di governare ancora la società perché la fedeltà diffusa agli obblighi di uno stile di vita condiviso sembrava resistere agli urti delle volontà di distacco e alle rivendicazioni striscianti di autonomia. Ma nelle impalcature del grande edificio cristiano ereditato dal passato si allargavano crepe inquietanti, che erano il segnale di un sommovimento sulla via di manifestarsi in tutta la sua forza dirompente. Se i grandi numeri, le divise da parata, le bandiere e i distintivi da ostentare con orgoglio erano la punta emergente di una fede che veniva da molto lontano, altrettanto vero era che ci si trovava di fronte a un mondo che cominciava a camminare sempre di più in una direzione diversa, con la presunzione di aver trovato una strada migliore per dare felicità all’uomo e rispondere all’ampiezza di tutto il suo desiderio.
Il verdetto severo che abbiamo citato all’inizio coincide con l’esordio di un’opera tra le più note della prima maturità del grande teologo cattolico del Novecento: Abbattere i bastioni, apparsa per la prima volta in lingua tedesca nel 1952, a breve distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale. Si era, allora, nel pieno di un ciclopico sforzo collettivo di ricostruzione, soprattutto nella metà del mondo sottratta all’avanzata del totalitarismo staliniano e consegnata al dominio delle potenze filo-occidentali. Il rilancio della vita economica e il decollo di una modernità sociale più compiuta e vigorosa coincidevano anche per la Chiesa con l’uscita da una stagione di sofferenze, di sconfitte amare e di dure limitazioni.
L’aria nuova che si respirava alimentava il desiderio di una ripresa del sentimento religioso. Incoraggiava a perseguire le strategie per una riconquista, in un ambiente che sembrava ancora facile da addomesticare, pronto a un radioso progresso in cui si pensava impossibile recidere i legami con la sua più remota matrice cristiana. Davanti ai seminari colmi di giovani desiderosi di dedicare la loro vita all’ideale del servizio religioso, con le parrocchie che funzionavano a massimo regime e reclutavano nelle reti delle associazioni cattoliche una larga porzione di tutti i ceti sociali, non era assolutamente scontato percepire i contorni della sfida che si era aperta.
Dietro lo schermo della cristianità ancorata ai suoi rigidi schemi di regole e alla impalcatura robusta delle sue strutture capillari, lo scenario che si profilava era quello del divorzio tra il guscio esterno delle traduzioni storiche in cui si era calata la fede del cristianesimo e la logica nuova di un’emancipazione dell’uomo moderno che pretendeva di costruirsi da sé, distorcendo, o annullando del tutto la sua dipendenza da un Dio respinto ai margini del recinto della vita: al punto che ci si poteva cominciare a chiedere se era la Chiesa che stava abbandonando l’umanità, o se era l’umanità che aveva voltato, irriconoscente, le spalle, preferendo andare per la propria strada.
Ma era ancora facile illudersi che per arginare le forze di opposizione bastasse puntare i piedi con tenacia e riaffermare in tutti i suoi termini l’appello che la fede cristiana tradizionale continuava a rivolgere agli uomini. Solo una minoranza capace di guardare più lontano, attaccata al nucleo più genuino di quella stessa fede di ogni tempo, prima e al di là delle forme di cui essa si rivestiva per comunicarsi al mondo, era così libera e disponibile da poter percepire tutta la radicalità della nuova situazione che si stava disegnando.
La comparsa di una modernità che voleva rendersi indipendente, sempre di più secolarizzata anche quando continuava a parlare un linguaggio esternamente amico della fede religiosa, doveva diventare una provocazione che costringeva la fede dei cristiani a un ripensamento radicale. Il mondo che cambiava chiamava la Chiesa a una conversione che non poteva non sfociare in una grande opera di “purificazione”: si doveva risalire all’essenziale, lasciar cadere il resto, e proseguire con decisione su una traiettoria lungo la quale non bastavano più le sicurezze dell’antico dominio cristiano sulla totalità della realtà sociale.
Balthasar è stato fra coloro che questa sfida di cambiamento hanno saputo accoglierla più lucidamente. Rimettersi oggi a confronto con la sua proposta di “riforma” dell’esperienza vissuta del cristianesimo, vuol dire ripercorrere dall’interno le tappe di un cammino che, nei decenni successivi, avrebbe conosciuto sviluppi ed elaborazioni fondamentali, arrivando fino a toccare noi che viviamo nella realtà del tempo presente.
Ottima idea è stata, perciò, quella dell’editrice Jaca Book, che ha voluto ripresentare il testo del 1952 unendolo con l’altro, ugualmente fortunato, pamphlet di dieci anni successivo, redatto da Balthasar in pieno svolgimento del concilio Vaticano II: cioè Solo l’amore è credibile (1963), di cui già si è avuto modo di parlare sulle pagine de Ilsussidiario.net. Ne è venuto fuori un volume che è ora una preziosa via di accesso ai contenuti fondamentali della visione dell’impatto della fede cristiana sul mondo moderno cara al grande maestro della teologia contemporanea, arricchita dalla pregevole introduzione di uno dei massimi conoscitori italiani della sua opera: Elio Guerriero (La percezione dell’amore, Jaca Book, Milano 2010).
Qui possiamo soltanto accennare al senso ultimo della proposta di cui la scrittura religiosa di Balthasar ha voluto rendersi strumento. Quando la “struttura storica” di una grande tradizione era chiamata a ridefinire se stessa, davanti a un mondo che non era più quello delle epoche che l’avevano generata, le opzioni erano soltanto due, scrive Balthasar: o cedere alla sua distruzione aggressiva, dall’esterno, per opera degli agenti corrosivi che trascinavano la storia su un crinale totalmente cambiato, oppure disporsi all’unico mezzo che poteva consentire di “riacquistare la propria vitalità per il presente e il futuro”.
Questa via era quella della rigenerazione interna, della rianimazione sostanziale del centro da cui si irradiano tutte le manifestazioni della vita cristiana. Solo questa poteva diventare la forza del vero “superamento”, della “vitalità che dà anima a tutte le tradizioni: una vitalità che conosce il passato e, tuttavia, è capace di distaccarsene nella misura in cui lo esigono il senso di responsabilità e la disponibilità al futuro”.
Per vincere l’inerzia di un cristianesimo che minacciava di staccarsi dal flusso della vita reale del mondo, l’unico rimedio era lasciare che dal suo seno si sprigionasse una rinnovata “forza vitale”. Ci voleva una nuova “giovinezza”. Ma questa non poteva che venire dal fatto di “ripartire da Cristo”: per rifare “oggi”, in modo diverso, quello che hanno fatto “i grandi della storia cristiana della salvezza”. Non per ripetere passivamente le loro soluzioni, fossero pure quelle di “Tommaso” o di “Newman”. Ma per ricreare le condizioni del dinamismo che ha permesso ai maestri della fede del passato di giungere al loro approdo esemplare: cioè ricominciando sempre e di nuovo dall’origine di tutto.
Per questo, secondo Balthasar, la strada del rinnovamento della Chiesa nel mondo moderno non poteva che passare attraverso la fioritura luminosa di una nuova “santità”. Solo l’energia della santità vissuta era capace di reimmettere la forza dello Spirito nella realtà del tempo che cambia. Per lasciarsene conquistare, la Chiesa doveva uscire dai “bastioni” della fortezza in cui si era chiusa, alla sommità della costruzione di un passato ormai destinato a finire. Doveva imparare ad andare di nuovo incontro al mondo, “scendendo”, come Cristo, nella desolazione anche più arida e ostile di un’umanità da abbracciare nello slancio di una carità totalmente libera e disponibile, totalmente gratuita e risanatrice. Ci volevano una nuova “responsabilità” e un nuovo tipo di “apostolato”, lanciati in un orizzonte risolutamente “missionario”.
Per ridiventare “luce del mondo” e riportare, così, il “lievito” della salvezza cristiana dentro la vita concreta dell’umanità sofferente, la Chiesa dei tempi moderni doveva inventare anche forme nuove per calarsi nella società che la avvolgeva da ogni lato. Era scoccata ormai “l’ora dei laici”. E per riportare nel cuore della vita del mondo il centro dell’amore di Cristo che tutto muove e tutto attira a sé, la forma suprema a cui Balthasar volle dedicare la sua intera esistenza di teologo e di cristiano cominciò a essere quella di affidare il compito di una nuova testimonianza cristiana a comunità di persone che potevano unire la “vita cristiana radicale secondo i consigli evangelici con l’esistenza in mezzo al mondo”, “sia esercitando professioni profane, sia con il sacerdozio ministeriale”, portando il contagio di una presenza carica di fascino umano dentro la realtà del lavoro, della cultura, della costruzione delle relazioni sociali. Per lui, “l’attività di scrittore rest(ò) sempre un prodotto secondario”.