I media italiani avevano seguito per anni l’ascesa del leader greco Tsipras, da coraggioso censore dell’austerità finanziaria europea a capofila di un partito di sinistra, ma in grado di conquistarsi consensi trasversali con spot al vetriolo e una valigia di promesse elettorali da far impallidire l’Eldorado.
Il connubio mediatico aveva iniziato a cedere con l’addio di Varoufakis, il muscoloso economista e raffinato intenditore di belle lettere che aveva scavalcato Syriza a sinistra, per mantenere un profilo più radicale e persino glamour nella cieca intransigenza contro l’egemonia berlinese nella Ue. Gli eroi della reconquista non sono scomparsi, come non si è prosciugata la devastante massa debitoria che incombe violentemente sulla programmazione economica del governo greco. I disagi sociali, almeno sotto certi aspetti, sono persino aumentati, perché, cronicizzandosi, hanno segnato il definitivo arretramento della Grecia su una serie di fattori che, invece, si davano per acquisiti: assistenza sanitaria, mortalità, disoccupazione giovanile, pubblico impiego, infrastrutture a sostegno del terzo settore. Mentre Tsipras si trascina tra vertici interni e internazionali senza avere la forza di indicare una via d’uscita definitiva (ai miracoli non è attrezzato e deve barcamenarsi tra realismo e promesse), un’intera generazione, nella vita pubblica ellenica, è al palo. In parte tradita dal suo messia laico, in parte ancora in luna di miele con le speranze di una ripresa senza prequel vampireschi così lunghi ed estenuanti.
Che l’appeal mediatico di Tsipras e di Varoufakis (a proposito, oggi a capo dell’ennesima fondazione-partito-movimento, Diem25, che si prefigge di rigenerare l’europeismo parlando di riforme high-tech: auguri!) si sia ridotto a lumicino non significa che in Grecia, come detto, siano finiti i malesseri e i problemi sociali. E che non si possa cercare un modo per raccontarli, magari in quella tradizione popolare, riottosa, scontrosa, non allineata, che i nuovi fari della Grecia liberal sembrano avere dimenticato.
Questo straordinario racconto nazionale, in Grecia, ha un nome ben preciso: “rebetiko”, la musica nata tra l’Asia Minore (dove l’Oriente è ancora Europa) e i primi, grandi, sobborghi di fine Ottocento e inizio Novecento, all’ombra della vita metropolitana — che in Grecia, invero, si è diffusa prevalentemente tra Atene e Salonicco. Una musica versatile, poliedrica, che, senza avere un millesimo delle produzioni discografiche delle big band statunitensi o dei denari che iniziavano a circolare copiosi nelle dance hall britanniche, sapeva inglobare ogni suggestione, ogni frammento di linguaggio. Contaminazioni di spiritualità ortodossa e remote parentele slave, strumenti della tradizione asiatica e dell’artigianato greco, stoviglie da cucina e virtuosismi canori imperdibili.
Il rebetiko in Italia ha sempre avuto modeste simpatie, fino a che il musicista e cantautore Vinicio Capossela non ha deciso di dedicargli un disco, “Rebetiko Gymnastas” (2012), dove gli arrangiamenti greci e il retaggio degli strumenti a corda sepolti dalla storia danno nuove sfumature a molti pezzi di repertorio del cantante italiano.
Non ce ne voglia l’ottimo Capossela, ma siamo a un livello di intensità inferiore rispetto ai due grandi maestri del genere, tumultuosi poeti della Grecia più struggente dai tempi della sua epopea antica: Markos Vamvakaris (1905-1972) e Vassilis Tsitsanis (1915-1984). Una Grecia travolta suo malgrado dallo smembramento dell’Impero Ottomano, agganciatasi per moto inerziale, più che per convinzione, al mondo euro-occidentale, essa stessa teatro di dittature e, poi, piccolo Stato emergente nell’Europa dell’economia immateriale. Una postmodernità finta, tutta spiagge, sorrisi e New Left (pur se incarnata da molti vecchi dirigenti del Partito socialista panellenico). Vamvakaris e Tsitsanis, due intellettuali prestati alla strada, traviati dal bouzouki e dalle taverne. Il primo, chitarrista di un’austerità insuperata e di una semplicità metrica in netto contrasto col lavorio psicologico impresso ai protagonisti delle sue opere, nominato “patriarca” del rebetiko (addirittura) dal più noto cantante greco, Mikis Theodorakis. Il secondo, stilnovista mancato, seduttore, con le sue liriche, di vedette e attrici della bellezza di Marika Ninou e Sotiria Bellou. Li risentiamo volentieri, Markos e Vassilis, con le loro donne dolenti, i loro banditi da stamberga, i loro villici e poveri dalla battuta pronta. Il loro ghigno sdentato accoglie i migranti asiatici e africani in transito dal Pireo e maledice i manifesti sorridenti di una politica sconfitta. Loro, sì, Vamvakaris e Tsitsanis, sapevano perdere con dignità.