La tragedia sismica che ha colpito il Giappone e il devastante effetto domino indotto dallo tsunami con alluvioni, esplosioni, distruzioni e incendi, mostrano drammaticamente come rischi naturali e tecnologici siano, in una società industrialmente avanzata, fatalmente intrecciati.
Ciò vale ancor più nel settore energetico che, di una società economicamente sviluppata, è la vera spina dorsale. Ciò che sta avvenendo nella centrale nucleare di Fukushima, già oggi classificabile come il più grave incidente nucleare nella storia dopo Chernobyl, va infatti inserito in un quadro ancora più allarmante se si tiene conto dei disastri che il sisma ha prodotto in altri segmenti strategici della produzione e trasformazione di energia. Abbiamo tutti impresso nella mente le immagini delle esplosioni a catena nei depositi di gas e idrocarburi e il devastante cedimento delle dighe che probabilmente alimentavano anche centrali idroelettriche.
Accanto al nucleare, da sempre esposto ad alti fattori di pericolo, anche i combustibili fossili, la fonte oggi primaria di energia, e perfino la più diffusa e apparentemente innocua delle energie rinnovabili, l’acqua, mostrano una vulnerabilità che è stata certamente sottovalutata dai governi e poco o per nulla percepita dall’opinione pubblica.
Si può certamente sostenere che in Europa e nel nostro Paese i rischi sismici sono minori rispetto al Giappone, ma se si prendono in considerazione tutti i possibili fattori di pericoli naturali (frane, alluvioni, incendi boschivi, eventi meteorologici estremi) e quelli tecnologici legati alla nostra alta industrializzazione (esplosioni, incendi e rilasci di sostanze tossiche, trasporto di merci pericolose su strade e ferrovie) ci accorgiamo che gran parte delle nostre filiere energetiche (depositi di carburanti, gasdotti, bacini idrici montani e, ovviamente, impianti nucleari) rappresentano un alto fattore di rischio per la vita e la salute umana, senza parlare della costante minaccia di inquinamento ambientale.
Si impone a questo punto un ripensamento profondo e responsabile, sotto il profilo non solo tecnologico e ambientale, ma anche etico e sociale, del sistema energetico che vogliamo porre alla base di uno sviluppo economico che sia sostenibile, condiviso e solidale. Bene hanno fatto dunque alcuni governi europei (Germania in testa) ad avviare una riconsiderazione dei rischi connessi agli impianti nucleari esistenti. Occorre però andare oltre e prendere in considerazione tre direttrici di fondo:
1) Ogni sistema energetico, sia esso basato su fonti nucleari, fossili o rinnovabile, va attentamente considerato non solo in base a parametri economici e tecnologici, ma sotto ogni aspetto connesso all’integrità della vita e della salute delle persone, alla tutela dell’ambiente, alla sua accettazione, consapevole e responsabile, da parte dei cittadini. In particolare, a ogni valutazione di rischio vanno associate chiare e ben definite politiche di prevenzione e mitigazione dei rischi derivanti da eventuali incidenti.
2) Le filiere energetiche, per la loro complessità, coinvolgono responsabilità politiche e gestionali difficilmente iscrivibili ai soli confini nazionali. Pensiamo al ciclo del combustibile e delle relative scorie nel settore nucleare, agli approvvigionamenti e ai trasporti di petrolio e gas naturale, agli effetti sul cambiamento climatico e sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero delle diverse opzioni energetiche. Se si vuol davvero costruire una casa comune europea, le grandi strategie energetiche (politiche di approvvigionamento, gestione e controllo degli impianti nucleari, ricerca e sviluppo nel settore delle fonti rinnovabili) va condotta sotto diretta guida politica e affidata a specifiche autorità di gestione a livello comunitario. Dopo la tragedia del Giappone è ormai tramontata l’epoca dei piani energetici nazionali.
3) Le scelte di fondo nel settore energetico richiedono molti anni per lo studio e lo sviluppo industriale di nuove tecnologie e interi decenni per la realizzazione, gestione e infine per la dismissione degli impianti più complessi. Si richiede, allora, una visione di grande respiro temporale e al tempo stesso ideale correlata a innovativi modelli di sviluppo della nostra società e necessariamente proiettati verso le future generazioni.
È una sfida che ci chiede di considerare l’intero secolo che ci sta davanti. Forse è l’occasione, più concreta e realistica di quanto si pensi, per tornare a coltivare nobili e motivanti utopie.