Gent.ma signora Ministro,
accettare un incarico di governo ha una spiacevolissima conseguenza: quella di ritrovarsi improvvisamente responsabili di una situazione che deriva da decisioni e orientamenti precedenti, sulla quale solo parzialmente si può intervenire, e spesso non in tempi brevi. Lo stato dell’università italiana è molto difficile e già altri, e molto più autorevolmente di me, hanno preso la parola per mettere in evidenza i problemi sui quali tutti speriamo che Lei possa intervenire.
Da parte mia vorrei solo aggiungere un tassello, apparentemente marginale ma in realtà (come spero di dimostrare) decisivo: la degenerazione burocratica che il nostro lavoro negli ultimi anni ha subìto. Per non restare nel vago, voglio soffermarmi su un caso specifico e recentissimo. Come certamente saprà, in questi giorni tutte le sedi universitarie italiane sono alle prese con le scadenze del sistema Ava (Autovalutazione, Valutazione periodica e Accreditamento). Le finalità dichiarate sono lodevoli: chi potrebbe ragionevolmente opporsi allo scopo del miglioramento dei corsi di studio e al controllo sul possesso di requisiti minimi per un insegnamento serio e di qualità? Il problema sta ovviamente nei mezzi adottati.
Basta una lettura anche rapida della normativa (in particolare del Decreto ministeriale 47/2013) per rimanere anzitutto sconcertati di fronte alla farragine burocratica che viene scaraventata sui corsi di studio. Lei ne sarà perfettamente al corrente, ma per chi non è particolarmente addentro al mondo accademico mi permetto di riassumere, per esempio, quali sono le strutture di cui ora si deve dotare un corso di studio: oltre ad un «Consiglio di corso di studio», anche il «Gruppo di riesame», un «Commissione di Gestione dell’Assicurazione della Qualità», una «Commissione paritetica», il tutto variamente intrecciato con strutture simili od omologhe di Dipartimento e di Ateneo (per esempio il Responsabile di qualità di dipartimento, il Nucleo di valutazione di ateneo, il Presidio di qualità, e così via).
Di tutti questi gruppi di lavoro bisogna dichiarare le funzioni, le scadenze di lavoro, il modo in cui entrano in contatto con le altre strutture e si scambiano risultati e proposte. Gli atenei più ligi hanno dedotto appositi organigrammi, che assomigliano più al labirinto di Cnosso che ad una seria organizzazione aziendale. Ma forse il profano ha ancora bisogno di sapere il dato decisivo: che cioè il corso di studio, che deve costituire gli organismi che all’inizio ho citato, è costituito in moltissimi casi di una decina di docenti o anche meno (sarebbe bene che fossero di più, ovviamente, ma ormai a questo hanno portato i pensionamenti e la totale assenza di ricambio). Dieci persone che si vedono e lavorano insieme ogni giorno, ma che dovrebbero ora trasformarsi in un insieme di minuscole bande che comunicano a distanza attraverso verbali, controllandosi ritmicamente a vicenda.
Tutto questo, signor ministro, è semplicemente offensivo, oltre che ridicolo. Una struttura simile sarebbe capace di paralizzare una grande azienda, che non si sognerebbe mai di migliorare la qualità in questo modo: figuriamoci un gruppo di una decina di persone. Se un singolo si comportasse così, lo si porterebbe da un bravo psicoanalista con la diagnosi evidente di nevrosi ossessivo-compulsiva. Ora la nevrosi collettiva ci viene imposta per legge.
Faccio un altro esempio. Ormai da diversi anni si insiste sull’esistenza di «requisiti minimi» per un corso di laurea. Sacrosanto, ovviamente: un corso senza abbastanza docenti e senza competenze adatte è una truffa nei confronti degli studenti e va chiuso immediatamente. Il problema è il modo in cui bisogna accertare tali requisiti minimi. Taccio sul modo astruso in cui siamo stati costretti a calcolare la «Didattica sostenibile» e su perle simili. Mi soffermo solo su un particolare, per dar l’idea (anche in questo caso al lettore profano) di quale sia la logica ottusa che si nasconde dietro certi algoritmi.
Immaginiamo un corso di laurea in Filosofia che si arricchisce con competenze trasversali: un’ottima filosofa del diritto viene ad insegnare bioetica, un ottimo storico della letteratura latina viene ad insegnare la storia della tradizione classica. Due begli esempi di interdisciplinarietà, che colleghi e studenti apprezzano moltissimo. Inoltre (per parlare in “Miurese”) tutti e quattro i settori coinvolti sono «caratterizzanti». Andiamo ad inserire i dati nel sito dell’Ava e (sorpresa!) accanto ai nomi dei brillanti colleghi compare un avviso in rosso: dato che la disciplina che insegnano non è nel loro personale settore (pur essendo l’una e l’altra, ripeto, caratterizzanti del corso di laurea), il loro valore per le norme Ava è zero. Una svista?
Macché. Un’apposita voce delle Faq nel sito dell’Anvur mi spiega con fare didascalico che tutto ciò è intenzionale: «Il principio ispiratore che guida questo indicatore è che il docente di riferimento deve essere “competente” sul Corso di studio in modo da poterne seguire la progettazione, lo svolgimento e la verifica (cioè l’Aq del corso)». Dunque: i suddetti docenti sono “incompetenti”, così ha deciso l’Anvur. Anzi: valgono meno di un cancellino per la lavagna, la cui presenza può perlomeno essere segnalata come titolo di merito (nel quadro B4 della SUA, di cui ora Le parlerò). Signor Ministro, esagero se dico che tutto questo è stupido e arrogante? È così che vogliamo assicurare la qualità dell’università italiana?
Passiamo ora agli strumenti usati. Siamo nell’era dei nativi digitali, è logico che i dati siano raccolti in modo informatico. In effetti, da settimane tutti i corsi di laurea sono impegnati nella compilazione della scheda SUA, che è il grande serbatoio in cui confluiscono e sono verificati i dati che dovrebbero attestare la qualità. Posso permettermi di chiederLe a quali collaudi e quali prove di usabilità è stato sottoposto questo sito, e con quali risultati, prima di essere imposto a noi docenti universitari e al nostro personale amministrativo? Non ci sarebbe nulla di male nel rendere pubblici questi rapporti. Il problema è che dubito che esistano.
Dal punto di vista dell’usabilità (uso questo termine nel senso del Nielsen Norman Group, per esempio), il sito è un vero disastro: macchinoso, con sezioni mal etichettate, con soluzioni tecniche sconcertanti (potrei elencarle ma non voglio tediarla), senza nessuna spiegazione (nella prima pagina le tre voci «Faq», «Mappa sito» e «Istruzioni» rimandano tutte e tre al nulla: un record). Riguardo alla correttezza formale, Le basti sapere che quando ormai avevamo inserito tutti i dati, ci è giunta una comunicazione in cui siamo stati avvertiti che, a causa di un baco, i docenti con «peso 0,5» potevano essere inseriti un numero infinito di volte, anziché solo due: senza annoiare i profani con i dettagli, ciò significa semplicemente che finalmente qualcuno aveva scoperto che 1/0,5 = 2.
Sono gli errori sempre presenti nella versione alpha di un programma, ovviamente. Il problema è se meritiamo di essere trattati come cavie, e ciò proprio nel momento in cui si pretende la «Qualità». La cosa più grottesca è il modo in cui la scheda SUA viene presentata: «una piattaforma di comunicazione “integrata” che consente di veicolare a tutti gli attori/destinatari del processo di comunicazione la medesima informazione, con un significativo vantaggio in termini di tempo, affidabilità e semplificazione dei processi informativi». Che cos’è, un esercizio di bispensiero orwelliano? non crede, signor ministro, che meritiamo un minimo di rispetto in più? (A proposito di rispetto: il sito non rispetta neppure da lontano la legge 4/2004 sull’accessibilità ai disabili dei siti della Pa, con relativo Dm applicativo dell’8 luglio 2005. In un colpo solo mancanza di rispetto per la legge, e per i disabili).
Ma ciò che è peggio è che questo sistema viene concepito non solo come un canale di comunicazione tra università e ministero, ma anche tra università e studenti o aspiranti tali (ai quali, non capisco bene perché, da un po’ di tempo al Miur c’è la moda di associare «le famiglie»). Con le informazioni della SUA, insomma, una neomaturata (o suo zio) dovrebbe essere in grado di scegliere il corso di laurea a lei più congeniale. Anche qui le chiedo: potrei gentilmente vedere quali indagini sono state fatte presso i giovani (o gli zii) per valutare l’adeguatezza di questo strumento? In realtà, già per anni è stato attivo a questo scopo il sito Off.f (Offerta Formativa): le posso assicurare che non ho mai incontrato uno studente non solo che lo abbia trovato utile, ma neppure che lo abbia consultato.
Ora, senza trarre nessuna lezione da questo disastro, il disastro viene moltiplicato: viene raccolto il peggio di Off.f (per esempio l’orgia di numeretti distribuiti sui settori scientifico-disciplinari), ma sempre più condito obbligatoriamente da dissertazioni pseudo-economico-gestionali e pseudo-pedagogiche.
Per esempio: già si doveva indicare la professione a cui prepara il corso di laurea (fu così che scoprii che per una laurea triennale non si possono indicare professioni intellettuali, ma solo «tecniche», tra le quali potevo però scegliere anche quella del «frate»: cliccare per credere, codice Istat 3.4.5.5.0). Ora, oltre a ciò (quadro A2.b) bisogna anche specificare: la «funzione in un contesto di lavoro», le «competenze associate alla funzione», gli «sbocchi professionali» (quadro A.2a; tra l’altro non capisco la differenza tra «professione a cui si prepara» e «sbocco professionale», neppure le Faq dell’Anvur mi hanno rischiarato la mente); ovviamente, il tutto solo dopo aver accuratamente riferito della «Consultazione con le organizzazioni rappresentative − a livello nazionale e internazionale − della produzione di beni e servizi, delle professioni» (quadro A1).
Andiamo avanti. Esplicitare gli obiettivi formativi del corso di laurea? Ottima idea. Posso umilmente suggerire che è invece idiota costringere a scrivere contorti trattatelli vivisezionando tra «Risultati di apprendimento attesi», «Conoscenza e comprensione», «Capacità di applicare conoscenza e comprensione», «Autonomia di giudizio», «Abilità comunicative», «Capacità di apprendimento» (quadro A4.b e A4.c)? e che poi, ciò che è avvenuto quest’anno, è un vero delirio chiedere che tutto questo venga fatto per ogni singolo insegnamento, in più distinguendo tra «programma», «obiettivi», «metodologie», «strumenti di verifica»?
Signor ministro, è questo il modo in cui vogliamo comunicare informazioni chiare ed efficaci ai nostri futuri e attuali studenti? È così che intendiamo mostrare che cosa siano le nostre discipline e cerchiamo di suscitare interesse ed entusiasmo? Ma i nostri futuri e attuali studenti (le «coorti», nella neolingua Anvuriana) si ostinano a pensare che un corso di laurea non sia come un frullatore che si sceglie consultando le tabelle comparative su Internet, e cercano sempre (anche attraverso Internet, ovviamente) un incontro umano, un’esperienza, un consiglio, un orizzonte di vita. Dei blateramenti pseudo-economici e pseudo-pedagogici non sanno che farsene (credo che neppure gli zii se ne facciano nulla, ma mi informerò meglio).
Non vado oltre con gli esempi, perché mi auguro che siano sufficienti. Mi accorgo di aver ripetutamente parlato di «offese» e della necessità di un maggiore rispetto. Non sono un vecchio barone (sono un suo coetaneo, peraltro), né credo di avere un carattere particolarmente suscettibile. Solo credo che il lavoro che più o meno bene svolgo sia qualcosa di nobile, di importante, e anche di decisivo per il futuro di una nazione. Non ho alcun timore di essere valutato e criticato, come non lo ha, lei lo sa bene, la grande maggioranza dei miei colleghi.
Solo desideriamo che il nostro lavoro venga riconosciuto in quanto tale. Il nostro lavoro è studiare, scrivere, fare lezione, seguire tesi di laurea, dialogare con i nostri studenti, creare occasioni di discussione: non occupare settimane a decifrare leggi fumose e contraddittorie, a partecipare ad interminabili riunioni di indottrinamento amministrativo, a compilare moduli, a dare la caccia alle Faq dell’Anvur, a combattere con il sito della SUA. Quando siamo in un’aula, noi cerchiamo di «insegnare», non di «erogare didattica» (faccio fatica a far credere ai miei amici che questa è la terminologia usata dal ministero. Lei che, oltre che responsabile dell’Università, è anche toscana, potrebbe spiegare a chi di dovere che questa espressione è volgare e sgrammaticata nel bel Paese dove ’l sì suona?) Credo che lei capisca quanto sia frustrante mandar via uno studente, non riuscire a rispondergli, leggiucchiare distrattamente la sua tesi, mancare le occasioni di presentazione del corso di laurea, improvvisare le lezioni, non riuscire a terminare articoli, perché il proprio tempo è divorato da altre cose: cose che non solo non c’entrano nulla con il nostro lavoro, ma che nessuno ha mai empiricamente dimostrato che portino alcun vantaggio né ai docenti né agli studenti e sulle quali, in quest’epoca di euforia da sondaggi, nessuno mai ci ha chiesto il benché minimo parere. È solo questo che mi fa sentire offeso, stanco, deluso.
Signor ministro, è vero che accettare un incarico di governo ha la spiacevole conseguenza di diventare responsabili di decisioni altrui. Ma è anche vero che lei ora si trova in una posizione fortunatissima: quella di poter aprire sùbito e a costo zero una nuova stagione per l’università, semplicemente cancellando il delirio burocratico che la sta travolgendo. Non è tutto, ma è molto. Abolire l’Imu costa moltissimo, sospendere l’Ava non solo non costa nulla, ma libera risorse enormi: faccia stimare, la prego, quanta perdita economica, in termini di migliaia di ore di lavoro impiegate, stanno causando le normative attuali.
Se nell’attuale contingenza non si possono ottenere più fondi, perlomeno le nostre forze, quelle del nostro personale amministrativo e anche quelle dei nostri studenti non vadano sprecate. L’Ava non è un primo strumento perfezionabile: è una mostruosità da sospendere prima che sia troppo tardi. Solo dopo si potrà ripartire da zero: formulando criteri minimi chiari e rigorosi che potranno racchiudersi in qualche riga, semplificando radicalmente le norme sui corsi di studio, archiviando l’illusione che una formula possa sostituire la valutazione umana, e soprattutto smettendola con un centralismo che solo nelle peggiori dittature finora si era visto.
Le assicuro che se ci consulterà e ci darà fiducia (a tutti: docenti e studenti) saremo felici di dare un contributo positivo, di avanzare proposte alternative, e di dedicare le nostre forze all’unica cosa che che ci sta a cuore: il ruolo culturale, umano e sociale dell’università.
La ringrazio dell’attenzione e La saluto cordialmente,
Giovanni Salmeri
Presidente del Corso di laurea in Filosofia, Università di Roma Tor Vergata