Una tragedia nella tragedia: il devastante tsunami che venerdì scorso ha squassato la terra, in Giappone, non è l’unico cataclisma con il quale il Paese deve fare i conti. Il terremoto di magnitudo 9 che ha provocato l’onda anomala ha anche causato seri danni alla centrale nucleare di Fukushima. Nell’impianto, munito di sei reattori, s’avvicenda un danno dopo l’altro. Ogni minima notizia che riguardi la centrale rimbalza immediatamente ai 4 angoli del globo, amplificata dall’incertezza delle varie interpretazioni. Nella zona circostante, nel raggio di venti chilometri, i cittadini sono stati fatti evacuare. Nella fascia successiva, ovvero nel raggio di trenta chilometri, è stato imposto il coprifuoco. In un reattore le vasche di stoccaccio sono rimaste senz’acqua, e l’aumento delle radiazioni e dell’energia sviluppata fa temere il peggio: la fusione del nocciolo. Nel frattempo, l’aria circostante è stata contaminata, ci sono state fuoriuscite di radiazioni, che frammischiandosi all’aria, trasportate dai venti, stanno generando il panico del mondo.
Gli occhi di tutti gli abitanti del Pianeta sono puntati su Fukushima. Anche i nostri. In molti si chiedono se la nube radioattiva potrà mai lambire le coste italiane, addentrarsi all’interno, essere respirata dai nostri concittadini, dai nostri animali, e dalle nostre piante. E se così sarà, quali saranno le ripercussioni sulla nostra salute e sul nostro stile di vita? Si tratta di un allarme giustificato? In rete dilaga un’ipotesi: la nube ci colpirà nell’arco di, al massimo, 15 giorni. Come stanno, realmente, le cose? Cerchiamo di capire.
CLICCA >> QUI SOTTO PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO
Anzitutto, la dinamica con la quale la nube, in Giappone, sta formandosi: a Fukushima, il sistema di acque che raffreddava l’impianto non ha funzionato. I tecnici lavorano in una situazione estrema, senza elettricità. Il generatore diesel di emergenza, infatti, è saltato a causa del terremoto. Ora si sta immettendo acqua direttamente nei reattori, per raffreddare il combustibile radioattivo. A causa dell’elevata temperatura si crea del vapore acqueo, che fa aumentare la pressione. A quel punto si aprono le valvole, e il vapore viene sfiatato. Fuoriuscendo, trasporta con sé la radioattività presente nel liquido che raffreddava il combustibile. Questi vapori, quindi, sono stati rilasciati nell’atmosfera. Un sorte di nube controllata, operazione prevista in questi casi, contestualmente all’evacuazione dell’area circostante. Il problema è che, adesso, la nube, anzi, le nubi, sono in balia dei venti di bassa quota, di cui il Giappone è pieno.
Dove arriverà dipende da una serie di elementi. Oltre all’imprevedibile direzione in cui spireranno i venti, bisognerà contemplare alti fattori atmosferici, come le precipitazioni. Trattandosi, poi, di venti a bassa quota, il raggio d’azione dello spostamento è, in teoria, limitato. Quello che sappiamo è che, in questo momento, i venti stanno ruotando e soffieranno, nel corso delle prossime ore, moderati o forti da Est-Nord-Est su tutto il territorio. Il che vuol dire che si riverseranno, almeno fino a sabato, nell’Oceano Pacifico. Tra sabato 19 e domenica 20, è prevista la formazione – come riporta centrometeoitaliano.it, di un nuovo minimo depressionario che richiamerà sull’intero Giappone venti sostenuti dai quadranti Sud-Occidentali. il loro evolversi, da lunedì in poi, sarà da monitorare costantemente.
CLICCA >> QUI SOTTO PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO
Nel breve termine, i Paesi che maggiormente rischiano di essere coinvolti sono quelli dell’Estremo Oriente. Cina, Corea del Nord, e Russia – ma anche Stati Uniti, specie la California – sono i primi che saranno toccati, specie se la nube si innalzerà ad alta quota. Tali Paesi, non a caso, stanno studiando eventuali contromisure. In tutto il mondo, nel frattempo, si registrerà un piccolo aumento della radioattività.
Per quanto ci riguarda, dal Giappone, in linea aria, ci separano più di diecimila chilometri. Posto che possa accadere, la nube, raggiungendoci, risulterebbe decisamene diluita. A quanto spiega l’ingegnere Paolo Zeppa, responsabile del settore coordinamento emergenze Ispra, intervistato dal Tg1, i livelli di radioattività riscontrabili in Italia non sarebbero dannosi per gli esseri umani, ma rilevabili unicamente dalle più sofisticate strumentazioni. La contaminazione trasportata, infatti, sarebbe stata gradualmente rilasciata nel tragitto e dispersa, in larga parte, in zone non abitate.
CLICCA >> QUI SOTTO PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO
La pensa allo stesso modo la Protezione civile. «In questi giorni, giustamente, si guarda al Giappone con preoccupazione, per la grande sciagura che lo ha investito. Poi, in Italia, si fa una polemica sul nucleare sì o nucleare no, anche questa una cosa importante. in un Paese libero che s’interroga sul proprio futuro», ha detto il responsabile nazionale della Protezione civile, Franco Gabrielli, a margine di una conferenza stampa nella sede della Regione Marche. «Ma importante – ha aggiunto – è anche sapere se il nostro Paese sia in grado di rispondere adeguatamente alla presenza di una nube radioattiva. Potrebbe arrivare in Italia ed essere pericolosa?». Pare di no: «Al momento, per quelle che sono le informazioni sul circuito internazionale, questa è un’ipotesi largamente non considerata come probabile».
Se ancora tutto ciò non dovesse bastare, il professor Giuseppe Sgorbati della direzione di Arpa Lombardia, contattato dal IlSussidiario.net, sottolinea un concetto semplice, quanto rassicurante: ovvero, che la grande circolazione atmosferica procede da ovest a est. Infatti, da noi in genere arrivano i venti dall’Atlantico. «In Europa possiamo stare assolutamente tranquilli. Al momento abbiamo una circolazione di aria in alta quota che va dal Giappone verso gli Stati Uniti: già a quel punto la distanza garantisce una enorme diluizione dei contaminanti che dovessero liberarsi dalle centrali». E, se per caso, dell’aria contaminata dovesse proseguire il suo percorso fino all’Europa, «arriverebbe da noi dopo aver fatto il giro del globo con tutto quello che comporta, cioè una ancora maggiore diluizione e conseguente ulteriore perdita di pericolosità». Questo, specifica il professore, «nel caso di un incidente massivo, paragonabile a quello di Chernobyl. Visto che al momento non ci sono i presupposti per un simile paragone e vista la distanza con il luogo dell’incidente, non c’è da preoccuparsi».