Manhattan e la gabbia dorata
Oggi non vorrebbe insegnare da nessun’altra parte. «Anche se questa è un’umanità ferita». Monica, 25 anni, da dieci residente negli Stati Uniti, è docente di fisica e biologia in una delle high school più esclusive di Manhattan. Una retta di 35 mila dollari l’anno che possono permettersi solo i figli dell’upper class, le classiche persone a cui non manca nulla. O a cui, forse, manca tutto. Monica descrive giovani spenti, senza stimoli, annoiati e rinchiusi in una gabbia dorata, isolati anche dal punto di vista affettivo. Più che liberi, sono abbandonati a se stessi: «Due miei alunni, entrambi di 14 anni, sono stati allontanati perché trovati in possesso di cocaina. Possibile che in famiglia nessuno si sia accorto che spendevano 2 mila dollari a settimana? Un altro, che arrivava sempre in ritardo alla mattina, per giustificarsi ha spiegato di avere genitori separati ed entrambi costretti a viaggiare per lavoro, per lunghi periodi: mia mamma mi chiama dalla Cina tutte le mattine, ma poi io torno a letto». Per Monica anche questo è segno di una deriva educativa pericolosa: «Dopo la scuola hanno tutti mille attività, soprattutto perché a casa non c’è nessuno ad aspettarli. E poi, se sono particolarmente agitati o distratti, subito gli viene diagnosticata una sindrome da deficit di attenzione; così si comincia con gli psicofarmaci. Se un ragazzo un giorno è triste, come è normale nell’adolescenza, vuol dire che è depresso. Per questo ogni pomeriggio viene mandato da uno psicologo da 350 dollari a seduta. C’è insomma un modo molto borghese di risolvere dei finti problemi, di fatto senza affrontare la persona». Per questo all’inizio stabilire una connessione con questi ragazzi sembra un’impresa impossibile e deprimente. «Erano catatonici. Poi mi sono resa conto che forse erano semplicemente in attesa di qualcosa che li scuotesse dal torpore». Nasce così il Radius Club, un cineforum ma soprattutto un’occasione per fare due chiacchiere. Iniziano le uscite a teatro, ai musei, ma anche al cinema e a mangiare una pizza. In classe le cose iniziano a cambiare. «Un giorno stavamo facendo chimica, eravamo in laboratorio e c’era uno studente, Jeff, che non stava facendo assolutamente nulla. Quando gliel’ho fatto notare si è messo a urlare, gridandomi insulti, avvicinandosi come per prendermi a pugni. In seguito la scuola lo ha sospeso per qualche giorno. Il preside mi ha domandato cosa volessi fare: stava a me decidere se averlo nella mia classe o meno. Tutti si aspettavano una risposta negativa, come da prassi. Invece Jeff è tornato ed era talmente sorpreso della mia decisione da cambiare totalmente atteggiamento. Gli sembrava impossibile che potessi fidarmi di lui. Adesso è uno dei migliori della sua classe. Soprattutto, dal niente è nato un bellissimo rapporto di stima e amicizia. Siamo entrambi usciti dalla bolla. Il mondo è uno: è dentro la scuola ma anche al di fuori, per capirlo basta aprirsi all’umano».
La Colombia dai due volti
Don Marco Valera è insegnante e direttore spirituale nella capitale meno sicura dell’America Latina: si divide infatti tra una scuola a sud di Bogotà, in un quartiere controllato dai narcotrafficanti, e un istituto per italo-colombiani che sorge tra i palazzi del centro. Pochi chilometri di distanza per muri che dividono due realtà sociali agli antipodi: estremamente povera la prima, estremamente ricca la seconda. La sfida educativa? Il tentativo quotidiano di avvicinare questi due estremi, lavorando sui giovani. «Gli esseri umani sono gli stessi, hanno le stesse domande, le stesse esigenze», spiega il sacerdote. «Anche il mondo benestante ha una sua povertà: povertà familiare, povertà di ideali, sono certamente più viziati. D’altra parte, l’indigenza degli altri comporta che abbiano problemi fin sopra i capelli; ciononostante sono semplici, e se capiscono che ti spendi per loro si legano e ti seguono. Ma tutti hanno bisogno di affetto, di certezze, e di una compagnia».
Ma in cosa consiste il metodo educativo sperimentato con questi ragazzi? «Il mio obiettivo è quello che si formino una personalità libera, forte, ragionevole, contenta. Capace di costruire e giudicare le cose, e di crescere. Questa è la finalità. Il metodo non è altro che un rapporto: perché se l’educazione è educazione della persona allora è solo in un rapporto che si dispiega, si risveglia, si accompagna». E finisce che i bambini educano i genitori. Come Miguel, che racconta a don Marco di essere arrivato a casa, un pomeriggio e di aver detto al padre che non si deve picchiare la mamma. «E lui cosa ha fatto?», domanda preoccupato il sacerdote. «Lui ha smesso», replica semplicemente il bimbo. Dopo qualche mese Miguel ha fatto la prima comunione e ha presentato a tutti suo padre. «Mi ha detto fiero, orgoglioso: vedi com’è il mio papà adesso? Come a dire: guarda come l’ho fatto diventare. Sicuro, sereno: un bambino di quarta elementare che fa cambiare suo padre. I bambini capiscono tutto e danno un giudizio, e intervengono nella misura in cui sono capaci».
Ad Ascoli le bidelle hanno i tacchi a spillo
C’è una scuola in cui i muri sono stati dipinti di giallo e verde dagli insegnanti, perché «così è più bello», dove i bambini ogni giorno trovano sui tavoli della mensa un vaso di fiori, e dove le bidelle, sotto la divisa blu, portano i tacchi a spillo. Non si tratta di un esclusivo e un po’ bizzarro istituto privato, ma della scuola statale elementare don Giussani di Monticelli, in periferia di Ascoli Piceno. Prima del 1992 era il fanalino di coda della città e quando, nel 1992 appunto, Agnese Sandrin fu spedita qui a fare la preside non ci voleva credere. «Era il quartiere più trascurato, il più frettoloso dal punto di vista edilizio, socialmente di livello medio-basso: la scuola era un casermone di cemento dove negli anni Ottanta erano stati sperimentati tutti i materiali edilizi possibili. Dopo anni di lavoro con l’élite del centro, mi veniva da piangere. Poi mi sono dovuta guardare attorno, per costruire un’identità di scuola che fosse credibile sul piano umano. Quando tutto è da ricostruire, si parte da quello che c’è. E si colgono i segni di una positività, per darle una forma e renderla visibile. Nel quartiere ho percepito un clima di grande accoglienza e partecipazione, assieme a una forte aspettativa rispetto all’istituzione scuola come occasione di riscatto e di crescita. Io non ho fatto altro che mettere tutte queste cose a sistema. Come con alcune forme di volontariato episodico e spontaneo che ho inserito come educazione alla solidarietà».
Così facendo l’identità della scuola si forma man mano, attraverso tanti gesti: la bandiera, l’inno, la biblioteca, il centro culturale. Ma anche con il coinvolgimento di insegnanti e genitori. Ogni cosa è curata, armonica, dalle foto appese nel corridoio ai grandi quadri che riproducono Matisse e Van Gogh, «per avvicinare ai ragazzi l’idea di infinito». Competenze, dunque, come antidoto alla trascuratezza. La volontà di fare bene, l’amore per il bene comune. E soprattutto, un’ipotesi di lavoro imbastita sulla bellezza, tradotta in termini di ambienti ma soprattutto di progettazione didattica. I risultati si vedono. «Davanti a un muro pulito, a un’aula ordinata, a una lezione spiegata con passione, a un quadro che ti ispira un sentimento, non puoi dire “non mi piace”. Non è uno slogan, l’ho sperimentato concretamente: dirigo una scuola statale, non ho altro modo per mettere insieme musulmani, cattolici, laici, rossi e neri. Il bello unisce in sé tutte le visioni del mondo. È il varco, la via di fuga attraverso cui tu inchiodi le persone al senso dell’esistenza».
(Chiara Sirianni)