Consiglio di andare a vedere The way back, il film che Peter Weir ha girato nel 2010; da qualche tempo girava sulla rete e venerdì 6 luglio arriverà finalmente nelle sale italiane. È tratto da una storia vera, quella dell’ufficiale polacco Slawomir Rawicz, che gli invasori sovietici arrestano nel 1939 e vogliono condannare come spia. Durante l’interrogatorio che apre il film il giovane ufficiale rifiuta categoricamente di ammettere una colpa che non ha commesso, ma ad un certo punto gli aguzzini fanno entrare la moglie che, piangendo, conferma tutte le accuse. Slawomir (nel film si chiama Janusz) viene condannato a vent’anni di campo di lavoro in Siberia. Dopo due anni di durissima prigionia decide di tentare la fuga, che fortunosamente riesce a realizzare con altri prigionieri. Fuori dal lager inizia il lunghissimo viaggio verso sud per raggiungere il confine con la Mongolia, che poi i fuggiaschi scoprono però essere alleata dell’Urss e perciò insicura. Il viaggio deve continuare attraverso il deserto dei Gobi, poi le altissime montagne del Nepal fino ad approdare, finalmente al sicuro, in India. Sono migliaia e migliaia di chilometri a piedi.
Consiglio di vedere questo film per diverse ragioni. Prima di tutto perché ci fa ricordare cosa sia stato il regime sovietico. Nonostante, infatti, che l’evidenza storica ne abbia inconfutabilmente dimostrato la disumanità, vige ancora una strana amnesia su quel regime; ci si dimentica facilmente di quante vite sia costata la realizzazione del sogno comunista e quindi è benvenuta ogni opera che rinfreschi la memoria.
Una seconda ragione riguarda l’incrollabilità dell’io. Se uno, guardando il film, prova solo anche per un attimo ad immedesimarsi nelle condizioni in cui Janusz e i suoi compagni hanno realizzato la loro fuga, non può non stupirsi dell’inesauribile energia posseduta da un uomo che vuole la libertà. Tanto più se lo spettatore pensa a come inconvenienti banali possano facilmente accasciarlo, mentre gli evasi del film – dopo aver resistito per due anni al lager, cosa già miracolosa – affrontano determinati la sterminata taiga innevata, le coste del Bajkal infestate da insetti, l’infinito deserto, le montagne senza sentieri accessibili. Ed affrontano anche la loro debolezza, lo scoraggiamento, la paura del tradimento, l’imprevisto, la cattiveria: lo scopo da raggiungere è più forte di tutto.
C’è poi l’aspetto strettamente cinematografico. Non sono un critico, ma il ritmo tiene, le interpretazioni sono convincenti; e poi i paesaggi attraversati dai fuggiaschi sono di una straordinaria bellezza e di una maestosità che incute timore.
Ma ciò che mi ha colpito di più è un particolare, il particolare su cui si regge tutta la storia (vera, lo ricordo). Janusz è, del gruppo degli evasi, quello che ha la massima determinazione ad andare avanti, sempre e di fronte ad ogni ostacolo. Dialogando con un compagno che sta per cedere, svela cosa gli dia tanta forza. È il desiderio di rivedere sua moglie. Ma non solo perché le vuole bene; vuole rivederla per poterle perdonare il male che gli ha fatto accusandolo. Lei infatti, dice Janusz, «non potrà mai perdonarsi da sola». Ed è proprio così; l’animus cattolico del polacco Janusz sa che il perdono non è cosa che si amministri tra sé e sé. E sa che il perdono è il vertice dell’amore. Infatti il film finisce che…