È recentemente comparso su questo giornale un articolo di critica contro il test di ammissione alle facoltà universitarie a numero chiuso, in particolare medicina, e contro la prova scritta del concorso ordinario per docenti. Non entro nel merito del concorso docenti, mestiere che ritengo difficilissimo e ammiro davvero molto chi lo intraprende, ma vorrei sottoporre alla vostra riflessione una serie di puntualizzazioni per quanto riguarda il test di medicina. Innanzitutto, chiedo se sia lecito equiparare le due diverse prove: una, quella per futuri studenti universitari, rivolta a qualcuno che una formazione universitaria non l’ha nemmeno iniziata e l’altra, quella per docenti, il cui scopo è valutare il risultato finale di tale formazione.
Il test accusato consiste in 60 quesiti a risposta singola su scelta multipla (tra 5 opzioni) da risolvere in 100 minuti totali. Si critica il fatto che la prestazione richiesta consista più “nella velocità di scegliere la risposta giusta che nella conoscenza dei contenuti o nelle competenze logiche”. Mi ricordo, a questo riguardo, quanto asseriva il mio professore di storia e filosofia del liceo: se un argomento lo conosci, la risposta la sai dare subito, non ci devi ragionare sopra. Alla domanda quali sono le tre arterie che partono dal tronco celiaco, ci si augura che la risposta del chirurgo sia immediata, non che ci arrivi per deduzione logica perdendo tempo durante un intervento.
Qui poi si rileva una contraddizione della critica al test, perché ben 20 quesiti (un terzo del totale) sono di ragionamento logico. È vero che il tempo da dedicare a ogni singola domanda non consente una riflessione logica approfondita, ma per prepararsi a questo test ci sono diversi libri e corsi che insegnano a ragionare logicamente in modo rapido. Questo è uno scopo del test: selezionare chi ha appreso a ragionare logicamente in modo rapido. Quando un intervento si rivela più complicato di quanto era stato previsto in fase preoperatoria, il ragionamento deve essere il più veloce possibile per trovare la soluzione, pena un danno al paziente.
Viene poi criticato il nozionismo come se fosse uno strumento esclusivamente negativo di apprendimento. L’arte medica, però, è densa di nozioni che sono imprescindibili: i nomi e i sintomi delle patologie, i nomi e i dosaggi dei farmaci, l’anatomia. Più nozioni si hanno, prima si riconosce una malattia e si trova il metodo per curarla.
È vero che tra le cause che hanno portato a mettere a punto questo tipo di test c’è il fattore costi: necessità di un numero ridotto di commissari per correzioni che sono informatizzate. Ma è anche vero che è un test oggettivo. Chi non ricorda, nella propria esperienza universitaria, degli esami orali o scritti a domande aperte, in cui ogni singolo docente applicava criteri valutativi strettamente personali o era più o meno restio a dare un certo voto rispetto a un altro docente, a parità di preparazione dello studente?
Un’altra riflessione riguarda il rapporto tra esame di stato e test di medicina. Mi chiedo se si possano davvero considerare un doppio esame. L’esame di stato, come giustamente si scrive nell’articolo in questione, misura la preparazione culturale di un candidato. Il test di medicina è stato creato per un motivo diverso: assicurare agli studenti che accedono al corso di laurea di poter essere tutti formati in modo appropriato, di poter accedere tutti a laboratori e svolgervi attività pratica, di poter seguire lezioni in gruppi ridotti e non dispersive o caotiche, di poter poi accedere tutti alle scuole di specializzazione. D’altra parte, pensare a una graduatoria per entrare a medicina sulla base dei risultati dell’esame di stato, sarebbe gravato dal rischio di disparità: i criteri di giudizio in quell’esame non sono uniformi da commissione a commissione e si rischierebbe di penalizzare studenti meritevoli. Qui ancora una volta si conferma l’oggettività del test universitario.
Dalle motivazioni che hanno portato all’istituzione del test di medicina emergono aspetti di riflessione a un livello più profondo. Già ora, nonostante ci sia un numero limitato di accessi a medicina, quando inizia il tirocinio clinico nei reparti, tanti studenti si trovano abbandonati a se stessi e non certo per risentimenti da parte del medico anziano che è incaricato di fare loro da tutore, ma perché spesso un tutore si trova assegnati troppi studenti e non riesce a seguirli tutti e contemporaneamente occuparsi della sua attività di reparto. Se c’è una “fregatura” nel test di medicina, è per questi studenti in eccesso che perdono un’occasione di formazione, e non per chi non è entrato in facoltà. Immaginiamo cosa succederebbe se aumentasse il numero di studenti: la percentuale di chi non avrebbe la possibilità di imparare sul campo aumenterebbe drammaticamente. Si formerebbero tanti medici in teoria, che poi nella pratica saprebbero a mala pena visitare o comunque gestire un paziente. A chi avremmo fatto un buon servizio?
Un ultimo pensiero. Nell’articolo, si scrive che i test di medicina selezionano solo futuri medici dotati di capacità culturale, ma escludono “tutti quei giovani motivati, intuitivi, dotati di un sapere pratico” che vivrebbero la loro professione “come disciplina che cura, che mette a tema i pazienti e non che conosce a menadito manuali e tecniche”. Ma cosa significa? Che chi accede a medicina e ha cultura non sa curare, ma vive la sua professione come spersonalizzata, che tratta organi e non persone? Eh no, non sono d’accordo. Per superare il test si studia tanto, si rinuncia a molto e la motivazione è forte. Sono passati diversi anni, ma ricordo ancora il discorso d’inizio del primo anno accademico da parte del Rettore di Facoltà. Diceva che chi decide di fare il medico deve avere un cuore grande. E questo prima ancora di iniziare a studiare.
I manuali e le tecniche, in medicina, è necessario conoscerli – consentitemi l’espressione – il più a menadito possibile, perché più sai cosa stai facendo, più ne conosci i rischi e le possibili complicanze, e più è al sicuro il paziente. E avere cultura aiuta ad avvicinarsi ai pazienti, capirli, non soltanto curarli ma sapere prendersene cura. Certo dispiace per i ragazzi che non riescono a superare il test e dispiace molto. Ma riflettiamo su questi aspetti prima di considerarlo solo un meccanismo infernale. Perché non iniziare a considerarlo non un attrezzo macina-destino ma un’opportunità, una delle mille strade che ci si offrono nel corso della vita? Perché ne seguiranno molte altre di strade che ci si chiudono nonostante i nostri sforzi, ma per ognuna di esse altre se ne apriranno e la vita prenderà pieghe sorprendenti.