Com’è ben noto, la velocità di propagazione della luce nel vuoto è di circa 300.000 chilometri al secondo; per la precisione: 299792,458 chilometri al secondo, non un metro in più, non un metro in meno. Sappiamo, altresì, che la luce rallenta quando attraversa un mezzo trasparente più denso, come l’acqua o il vetro, a causa dell’interazione con gli atomi del materiale, ma riacquista immediatamente la sua velocità massima quando, all’uscita del materiale, riemerge nello spazio libero. A causa della sua invarianza, la velocità della luce nel vuoto è stata perciò catalogata dalla scienza moderna fra le costanti fisiche universali (come ad esempio la carica e la massa dell’elettrone, l’accelerazione di gravità, la costante di Planck ecc.).
A far vacillare questa certezza ci ha pensato un gruppo di ricercatori delle Università di Glasgow e di Heriot-Watt. In un recente articolo, pubblicato sulla rivista Science Express, i ricercatori delle due università hanno riportato i risultati di un esperimento che sembrano evidenziare (il dubitativo è d’obbligo in queste occasioni) la possibilità di rallentare i fotoni (i quanti di luce) nel vuoto mediante opportune manipolazioni della struttura spaziale di un impulso luminoso.
Per comprendere l’originalità dell’esperimento è necessario, a questo punto, aggiungere qualche informazione sulla natura degli impulsi luminosi. Facendo riferimento al modello corpuscolare della luce – sappiamo che la luce può presentarsi sia in forma di onda che in forma di particella (i fotoni per l’appunto) – un impulso luminoso viene descritto come un pacchetto di fotoni di energia leggermente diversa che propagano rimanendo confinati in una regione limitata di spazio. Per intenderci, l’impulso luminoso potrebbe essere paragonato a un plotone di ciclisti che si muove con una certa velocità. La velocità del plotone, tuttavia, non necessariamente coincide con quella dei singoli corridori. Al suo interno, infatti, i ciclisti potrebbero avere velocità diverse a causa di sorpassi o di improvvise frenate.
La stessa cosa accade negli impulsi luminosi. Quando un impulso propaga nel vuoto, tutti i suoi fotoni si muovono alla stessa velocità (quella della luce nel vuoto) e l’impulso mantiene inalterata la sua forma. Quando, invece, l’impulso luminoso è fatto propagare in un mezzo dispersivo (come l’acqua o il vetro), la velocità dei fotoni varia in funzione della loro energia e quindi la forma dell’impulso si modifica. Normalmente i fotoni a più alta energia (o, equivalentemente, a più alta frequenza) vengono ritardati maggiormente, provocando in questo modo un allargamento dell’impulso.
L’idea di sfruttare variazioni nella struttura spaziale degli impulsi luminosi per avere a disposizione fotoni che propagano più lentamente nel vuoto, è proprio quella che sta alla base dell’esperimento realizzato dai fisici scozzesi. La peculiarità dell’esperimento consiste nel fatto che le “deformazioni” degli impulsi luminosi non vengono provocate dal passaggio in un mezzo dispersivo ma dall’interazione con un dispositivo elettro-ottico denominato SLM (Spatial Light Modulator). Gli SLM sono matrici bidimensionali di cristalli liquidi che, sottoposti a campi elettrici, modificano in tempi molto rapidi la propria struttura spaziale provocando in questo modo deformazioni controllate del fronte d’onda incidente.
Il trucco sfruttato dai ricercatori scozzesi consiste nell’utilizzare fotoni singoli (anziché in gruppo) che seguono lo stesso percorso ottico di un impulso inviato su un dispositivo SLM. In pratica, vengono generate coppie di fotoni identici. Uno dei due fotoni è usato come riferimento e fatto propagare per una certa distanza in aria (l’aria si comporta con buona approssimazione come il vuoto) senza subire alcuna perturbazione. Anche l’altro fotone percorre la stessa distanza in aria, ma, a differenza del primo, durante il suo tragitto viene fatto interagire con una coppia di SLM che ne modificano la velocità (come la modificherebbero ai singoli fotoni appartenenti a un impulso che compisse lo stesso percorso). Alla fine della loro corsa i due fotoni sono intercettati da un misuratore di coincidenze.
Le misure effettuate mostrano che i fotoni che hanno interagito con la coppia di SLM arrivano al rivelatore di coincidenze dopo quelli che hanno propagato senza subire perturbazioni. Questo ritardo è interpretato dagli autori dell’esperimento come la prova che i fotoni si sono mossi ad una velocità inferiore a quella della luce nel vuoto.