Molti di noi hanno in casa un farmaco antifebbrile in compresse contenente la sostanza attiva – o principio attivo – paracetamolo; e, come tutti, prima di utilizzare un farmaco che è in casa da un po’ di tempo, leggono la data di scadenza. Ma cosa significa esattamente questa data, e come si arriva a determinarla? La risposta a questa domanda può farci entrare nel vivo di una parte significativa del contributo del chimico allo sviluppo farmaceutico.
Anzitutto dobbiamo ricordare che la data di scadenza è sempre associata alle condizioni di conservazione: se sulla scatoletta leggiamo, per esempio, “conservare a una temperatura non superiore a 25° C”, la data di scadenza è valida se abbiamo conservato il farmaco in queste condizioni.
Il primo parametro che il chimico deve scoprire è la degradazione del principio attivo contenuto nel farmaco, cioè l’insieme delle trasformazioni chimiche della sostanza sottoposta all’azione di agenti fisici e chimici come la temperatura elevata, l’umidità, l’ossigeno atmosferico e la luce. Quando una sostanza attiva si degrada, il suo contenuto cala nel tempo e si trasforma in altre sostanze, le “impurezze di degradazione”; un leggero calo del contenuto in principio attivo può determinare un calo di efficacia, ma la comparsa di impurezze è potenzialmente legata a effetti tossici.
Per fare un esempio, nei primi anni di utilizzo delle penicilline non ci si era accorti che durante la conservazione di questi farmaci si formavano col tempo delle impurezze, dette oligomeri, che potevano scatenare nei pazienti gravi reazioni allergiche. Oggi vogliamo conoscere questi problemi “prima” di utilizzare un farmaco e non sulla pelle del paziente.
All’inizio degli studi di stabilità si esegue uno studio di degradazione forzata, cioè si sottopone la sostanza attiva agli agenti fisici e chimici che abbiamo citato e in presenza di catalizzatori come acidi, basi, iniziatori radicalici, in modo da poter osservare in pochi giorni i processi chimici che richiederebbero anni se la sostanza attiva fosse conservata nelle condizioni normali.
Alla fine di questi trattamenti otteniamo dei campioni che contengono la sostanza attiva contaminata dalle sue impurezze. La tecnica analitica più usata per analizzare questi campioni è la cromatografia liquida accoppiata alla spettrometria di massa (Lcms): la prima parte dello strumento (Lc) separa le varie sostanze della miscela e quantifica il loro contenuto misurando l’assorbimento di luce ultravioletta; la seconda parte (Ms) fornisce delle indicazioni sulla struttura molecolare delle sostanze separate.
Spesso, però, l’analisi mediante Lcms non fornisce informazioni sufficienti per determinare la struttura molecolare e per completare lo studio il chimico deve isolare le varie impurezze e analizzarle con i metodi spettroscopici classici della chimica organica. I risultati devono poi essere analizzati nel loro insieme per comprendere il meccanismo delle reazioni di degradazione e per capire da quali agenti chimici e fisici si deve proteggere il principio attivo.
L’insieme delle informazioni ottenute è prezioso per il tecnico farmaceutico, che incorpora la polverina bianca del principio attivo in una compressa utilizzando sostanze, che chiamiamo eccipienti, che proteggono il principio attivo e ne favoriscono la somministrazione e l’assorbimento nel sistema digerente.
A questo punto rimane da controllare se finalmente la compressa prodotta può veramente essere conservata per tre anni nelle condizioni indicate. Campioni di compresse vengono allora posti in termostati impostati a precisi valori di temperatura e umidità che simulano l’uso normale e che tengono conto anche delle escursioni possibili, perché non possiamo ignorare per esempio che in casa d’estate la temperatura può salire un po’.
Ai tempi stabiliti le compresse vengono analizzate per controllare che il contenuto della sostanza attiva rimanga tale da garantire l’efficacia (convenzionalmente almeno il 95%) e per dosare tutte le impurezze di degradazione scoperte; la tecnica analitica più usata in questi studi è ancora la cromatografia liquida.
Lo studio si ripete almeno su tre lotti, perché il processo di fabbricazione può influenzare la stabilità. Alla fine si producono parecchi dati e il chimico analitico deve applicare un po’ di cinetica chimica e un bel po’ di statistica per ottenere il risultato finale: la dimostrazione che il paziente può utilizzare per tutta la durata di validità un farmaco efficace e sicuro.
È tutto? No, ci sono altri parametri da esaminare. Può verificarsi che due compresse differenti contengano la stessa quantità di sostanza attiva, ma che tuttavia ne rilascino una quantità molto diversa all’organismo. Sono stati allora inventati dei test per garantire, senza ricorrere a studi nell’animale o addirittura nell’uomo, che il rilascio di una sostanza sia costante; è un campo dove chimici, tecnologi farmaceutici e biologi specialisti di farmacocinetica lavorano insieme.
Per concludere, in alcuni farmaci, per esempio quelli da iniettare o i colliri, non devono essere presenti microorganismi: in questi casi il microbiologo farà allora parte del team degli studi di stabilità.