Il tempo dell’estate, lasciatosi alle spalle un anno scolastico e pure già in vista di quello successivo, favorisce in un insegnante il rimettere a fuoco la questione fondamentale per il suo lavoro: qual è il senso di ogni vera educazione.
È con questo spirito che ho letto il bel volume, dal titolo accattivante, Nani sulle spalle di giganti. Maestri e allievi nel Medioevo (Jaca Book, 2011). L’opera, frutto della collaborazione di due professori francesi, Pierre Riché e Jacques Verger, intende offrire al lettore il panorama della situazione culturale del Medioevo, dal VI al XV secolo, presentando i programmi, i luoghi e i modi dell’istruzione di quei mille anni. La chiave interpretativa del lavoro è data da una frase attribuita a Bernardo di Chartres (inizio XII secolo) , che figura anche nel titolo: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose e più lontano di quanto vedessero questi ultimi; non perché la nostra vista sia più acuta, o la nostra altezza ci avvantaggi, ma perché siamo sostenuti e innalzati dalla statura dei giganti ai quali ci appoggiamo». Con ciò è subito detto che la cultura medievale non può essere intesa – poiché essa stessa si concepiva così – se non a partire dal legame vivo con la tradizione classica antica, solida base di appoggio e allo stesso tempo trampolino di lancio verso l’incontro con il proprio presente. L’immagine dei nani – spiegano gli autori – non esprime solo un debito sostanziale con il passato, ma anche la possibilità sicura di compiere progressi e innovazioni; «innovazioni spesso modeste, progressi spesso incerti, ma che sommati gli uni agli altri fanno l’originalità della cultura medievale» (p.1).
Il primo pregio di questo studio è di offrire una visione organica e di ampio respiro sulla storia culturale del nostro Medioevo. Il libro si sviluppa infatti in due parti, ciascuna a cura di uno degli autori, intitolate rispettivamente Il tempo delle scuole (VI-XII secolo) e L’epoca delle università (XIII-XV secolo). Scuola è il termine ad ampio spettro che indica le varie istituzioni – più o meno regolamentate – che facevano capo ai monasteri e alle cattedrali cittadine e che hanno svolto il ruolo fondamentale di trasmissione della cultura nell’Alto Medioevo. Tra i secoli presi in esame molta attenzione è riservata al nono, quello centrale della cosiddetta “rinascita carolingia” (suddivisa dagli autori in tre sottoperiodi, dall’VIII all’XI secolo), periodo nel quale si costituisce attraverso l’insegnamento il canone degli autori latini “classici”.
Senza esitazione Pierre Riché afferma che già in questo secolo – vale a dire cinque secoli prima della datazione canonica – si delineano in Europa alcune personalità di stampo pienamente umanistico, quale quella di Lupo di Ferrières, letterato colto e appassionato degli autori antichi (cfr. p. 25). Non di minor rilievo è il secolo dodicesimo, al quale sono dedicati più capitoli. Esso segna infatti un punto di non ritorno nella vicenda culturale dell’Europa, là dove innovazioni sociali ed economiche si accompagnano a un profondo rinnovamento intellettuale.
Quest’ultimo è condizionato da tre elementi: la separazione tra chiostro e scuola, rispettivamente dedicati alla formazione dei monaci e dei laici (e origine delle cosiddette teologie monastica e scolastica); l’opera di due grandi quali Anselmo d’Aosta (sant’Anselmo) e Anselmo di Laon; il lavoro dei traduttori, che rimette l’Occidente in contatto con la filosofia di Aristotele per il tramite del mondo arabo (cfr. p.59). Il secolo viene poi passato in rassegna presentandone alcune delle maggiori personalità intellettuali (Abelardo, Giovanni di Salisbury, Ugo di san Vittore e il già citato Bernardo di Chartres), oltre che gli aspetti concreti dei programmi d’insegnamento e della vita degli studenti – come sempre divisa tra vero interesse per lo studio e vita sregolata. Dall’esame proposto risulta con chiarezza che il dodicesimo secolo contiene i germi per la fioritura dell’istituzione che dominerà i secoli successivi: l’università.
La seconda parte del libro (scritta da Jacques Verger) illustra ampiamente la vita delle università, dal loro sorgere come istituzione inedita in Europa nel XII-XIII secolo, fino al loro perdurante successo all’alba del Rinascimento, nel XV secolo. L’università è vista come il frutto maturo – e non come una generazione spontanea e improvvisa – di un bisogno forte e chiaro nella coscienza europea di dotarsi di un percorso di studi regolare e ben definito, che si concluda con il superamento di un esame finale (cfr. p.159). A partire dai nomi più noti delle prime fondazioni (Bologna, Cambridge, Montpellier, Napoli e una decina d’altre attive all’inizio del ’300) viene presentata la diffusione della nuova forma d’insegnamento in tutte le regioni europee, da Praga (fondata nel 1347) e le città dell’impero germanico (Vienna, Heidelberg, Colonia e molte altre) alla Scozia e alla Danimarca, ai Paesi mediterranei (cfr. p.198 s.). Dalle osservazioni dedicate ai programmi universitari, alla vita delle istituzioni e degli studenti, si comprende che l’università medievale è di più di una semplice struttura sociale o di un’istituzione dedita all’istruzione: essa è l’espressione concreta di una salda visione del mondo, che considera il bisogno di conoscenza dell’uomo come motore personale e sociale. L’autore ha anche l’onestà intellettuale di presentare le critiche rivolte dagli Umanisti all’università medievale; tuttavia egli non può negare – sulla base dei dati storici – che il perdurare e il moltiplicarsi dell’università nel Basso Medioevo è segno inequivocabile del suo successo (cfr. pp.205-211).
Basterebbe quanto detto finora per dimostrare la qualità del libro. Esso invece ha anche un altro pregio, e cioè che permette al lettore di identificare alcuni tratti caratteristici della cultura e dell’educazione medievale, peraltro non privi di attualità. Un primo tratto è il ruolo – sradicato e ormai quasi divelto dalla nostra prassi scolastica e universitaria – della memoria come strumento imprescindibile di conoscenza; si noti bene: non strumento per trattenere quanto si è già appreso, ma condizione necessaria proprio al fine dell’apprendimento. Tale era lo scopo delle antologie, o florilegi, dell’epoca: «L’ideale è quello di conservare tutto quel che si è letto nel “tesoro della memoria” (…). Sapere significa sapere a memoria. Non ci rendiamo conto, oggi, delle capacità che erano richieste all’allievo per ricordare tutto ciò che leggeva» (p.96).
L’idea di un sapere selettivo – o meglio selezionato, cioè scelto e voluto – (ragion per cui si compilavano le antologie, appunto per trattenere il meglio degli autori), perciò non enciclopedico (come sarà dall’Illuminismo in poi), e profondamente radicato nella memoria (camera di accesso alla mente e al cuore, come testimonia l’espressione inglese to learn by heart), cioè non passeggero, è un paradigma culturale forte che ha ancora molto da dire. Un secondo aspetto significativo riguarda il versante pedagogico. Sparse nel libro si trovano infatti alcune osservazioni davvero acute, che rivelano una sensibilità umana di cui anche ai nostri giorni c’è grande bisogno. Quanto alle doti del buon maestro si veda la lamentela di Guglielmo di Conches (sec. XII): «Quale libertà ci sarà mai negli studi, se vediamo già i maestri blandire gli allievi, e gli allievi giudicare i maestri, obbligandoli a parlare o tacere a comando? È raro ormai vedere un maestro severo. Più spesso chi insegna lo fa con voce suadente e sorriso adulatore. E quando qualcuno tenta di conservare la severità che conviene a un maestro, ecco che i cortigiani lo fuggono come se fosse folle, trovandolo crudele e inumano» (p.130).
In maniera complementare Paolo Diacono (IX secolo) esorta a un uso accorto e misurato della punizione nei confronti degli studenti: «Il maestro deve agire con moderazione nei confronti dei bambini, e non eccedere con la frusta poiché in ogni caso, dopo la frusta e la punizione, essi torneranno ben presto alle sciocchezze di sempre»; e ancora: «L’abate non deve permettere che i bambini siano puniti, scomunicati o frustati, poiché le maniere forti possono funzionare con monaci stupidi e negligenti ma rischiano di rendere i bambini peggiori di quanto sono, anziché migliori» (p. 28s.). Da ultimo si segnala l’idea di sant’Anselmo (XII secolo) sull’educazione; egli infatti, nel solco della tradizione benedettina, «paragonava l’opera dell’educatore a quella dell’orafo, che non colpisce il metallo prezioso con violenza ma lo polisce e lo plasma con dolcezza e discrezione, fino a dargli la forma desiderata» (p.63).
Grazie al loro studio gli Autori ci consentono così di entrare con piacere e allo stesso tempo con rigore nel mondo affascinante del nostro Medioevo. E se già i medievali si ritenevano nani che avevano molto da imparare dal loro passato, quanto più dovremmo sentirci bisognosi di imparare noi, che sediamo allo stesso tempo sulle spalle di giganti e di nani!