Reyhaneh Jabbadi è stata impiccata a 26 anni, nella fossa della prigione di Evin in Iran perché giudicata colpevole di omicidio. Lei si è sempre appellata alla legittima difesa: la sua fu una reazione al tentativo di stupro da parte di Mortaza Sarbandi, funzionario del governo. Le petizioni internazionali per la sua assoluzione non sono servite a molto; ma le è stata offerta la grazia, il perdono da parte del figlio dell’uomo accoltellato, Jalal, se avesse ritirato la sua accusa di tentata violenza carnale. Pare che anche poco prima di morire Jalal le avesse rinnovato la proposta, ma lei ha rifiutato e così è morta, appesa, sola, sotto gli occhi dei suoi accusatori e lontano dai suoi cari. Anche le sue ultime volontà sono state ignorate, come apprendiamo dalle poche notizie trapelate riguardo la sua sepoltura che non ha ammesso nemmeno le preghiere tradizionali.
Pubblicato e tradotto invece il suo ultimo messaggio, lasciato per la madre a cui non aveva neanche detto addio. Il testo è fenomenale e commovente. Le sue parole sono “senza fine” come lei stessa profetizza.
Le parole di una donna che è consapevole della terribile ingiustizia fattale, lei che “confidava nella legge” consola la sua “buona madre” che le ha insegnato come “bisogna perseverare, anche fino alla morte, per i valori” e le dice di “non vacillare di fronte al destino e non ti lamentare. Sai bene che la morte non è la fine della vita”.
Riporto testualmente, virgolettando, perché vale la pena ascoltarla. “Quanto ero ottimista ad aspettarmi giustizia dai giudici!”… “E questo paese che tu mi hai insegnato ad amare non mi ha mai voluta, e nessuno mi ha appoggiata” … “Il primo giorno che nell’ufficio della polizia un agente anziano e non sposato mi ha colpita per via delle mie unghie, ho capito che la bellezza non è fatta per questi tempi. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, la bella calligrafia, la bellezza degli occhi e di una visione, e persino la bellezza di una voce piacevole”… “Mia buona madre, cara Shole, più cara a me della mia stessa vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio cuore giovane diventino polvere. Supplicali perché subito dopo la mia impiccagione, il mio cuore, i reni, gli occhi, le ossa e qualunque altra cosa possa essere trapiantata venga sottratta al mio corpo e donata a qualcuno che ne ha bisogno”.
La sua cara madre Shole ha indossato un velo turchese al suo funerale; unica richiesta accolta.
Molte considerazioni salgono alle labbra e al cuore, il nostro giudizio libero si ribella di fronte a tanta ingiustizia, eppure è solo una tra le molte donne la bella Reyhaneh, che vengono stuprate, lapidate, vendute, abusate, come fossero solo delle mere proprietà, non persone umane. Alla pari di altri, degli uomini per esempio, ma non solo. Peggio degli animali, considerati sacri magari, o semplicemente più utili.
Eppure sono esseri umani, così fulgide nelle loro umanità che danno esempio. Il possesso più abietto, quello che uccide e imprigiona, non toglie loro la libertà; non dimentichiamo Asia Bibi, anche lei condannata a morte. O le donne yazide o le ragazzine cristiane rapite.
Da ogni angolo del mondo si levano i lamenti delle donne. La loro bellezza viene ogni momento calpestata, rinnegata, abusata. Ma ogni volta che viene colpita una donna, la vittoria della morte è doppia: in ogni donna c’è una madre, si uccide con lei la vita che porterà. La donna è il custode della vita; dalla Venere Steatopigica in poi, cioè dalla culla della civiltà umana, nella madre si adora, si ama la vita, il suo creatore e l’essere creato. La donna-madre contiene in sé l’idea del futuro, ma anche è segno di un Oltre misterioso e oscuro a cui la vita attinge e vi ritorna.
Un mondo che odia le donne è pericoloso in sé, è autodistruttivo, è mortifero e dannato. Una società, una cultura religiosa, un regime che punisce e teme la bellezza (quella delle donne, ma anche dell’arte) è portatore di morte e contiene il seme del male. E se ne sta spargendo in ogni dove, apriamo gli occhi. Abusare di una donna significa rubare, rapinare l’amore che contiene: distruggerlo. Ogni stupro è una distruzione, è come sradicare una sequoia millenaria, abbattere un palazzo, una Cattedrale.
“Il mondo non ci ama. Non voleva il mio destino. E adesso sto cedendo e sto abbracciando la morte”. Ancora le parole di Reyhaneh, profetiche.
Eppure lei è pronta a dare tutto: se non ha potuto generare figli, vuole dare il suo corpo, occhi, cuore, ossa, perché la vita resti! Osa sperare, nonostante tutto!
E chiama la madre, la culla della sua carne, perché del suo stesso corpo Reyhaneh ha pietà, non vuole che marcisca, non ha ceduto alla depravazione, non è stata piegata. Possiede l’intuito sacro che ogni corpo innocente è per una purità eterna.
Lei è davvero una donna: che bella!
Pur essendo musulmana condannata da un tribunale religioso, lei crede, anzi sa, che Dio è giusto. Proclama una giustizia “nell’altro mondo”.
Guardiamoci in faccia: l’altro mondo è una utopia per gli innocenti sfortunati o una realtà incombente? Reyhaneh sarà delusa e diventerà polvere oppure…? Quella alternativa è terribilmente inquietante. Niente affatto consolatoria.
Così come lo è la lettera che lei ci ha lasciato: non chiede vendetta, sa che non ha ottenuto giustizia, che nessun riscatto postumo le restituirà ciò che le hanno tolto: tutto.
La sua lettera serva a me, a te, a mio figlio, a tua figlia.
Che sappiano in che mondo viviamo, il respiro del male e la sconfitta del bene. Il lupo che mangia Cappuccetto Rosso ci attende all’angolo e ci può (realmente) divorare.
Ci sarà davvero il Cacciatore?