È in fase di approvazione la riforma universitaria. Se tutto andrà de plano, entro fine anno il Paese disporrà di un testo di legge organico che riorganizza il governo degli atenei, prevede strumenti per limitare la frantumazione delle sedi universitarie, introduce concetti di grande interesse quali la valutazione, il merito, l’internazionalizzazione; limita il proliferare dei corsi di laurea e dei dipartimenti; riformula lo stato giuridico e il reclutamento dei docenti introducendo l’abilitazione nazionale e molto altro ancora. Si tratta, nell’ insieme, di un provvedimento con forti elementi di innovatività, lungamente atteso e non più procrastinabile, visti i molti intereventi spot fatti in passato che sono andati sovrapponendosi all’ultimo provvedimento generale sull’università, quello emanato nel 1980.
Nel momento in cui la Camera è impegnata ad approvare in seconda lettura la legge, cui seguirà un ulteriore passaggio al Senato ma, questa volta, senza emendamenti, sembra che molti e molto rumorosi siano gli scontenti; le proteste – secondo il giornali – scuotono il Paese, gli atenei e le istituzioni, fino a far persino supporre che si profili una rinuncia a concludere il processo. È assai improbabile che questi sommovimenti abbiano successo, fondati come sono su argomenti generici e debolmente sostenuti dagli stessi partiti all’opposizione. E tuttavia può essere utile ridire che i punti cruciali della riforma – pur controbilanciati dai molti elementi di incertezza e da aspetti di non piena coerenza con l’insieme dell’impianto normativo – fanno pendere il piatto della bilancia verso e non contro la riforma stessa.
È auspicabile dunque che si approvi la riforma, senza tanti distinguo e tante puntualizzazioni pressoché inevitabili in presenza di un intervento legislativo di così ampia portata, e che poi si metta mano con urgenza alla sua attuazione. È su questo che ci si deve misurare perché, come sempre, una legge – anche la più coerente -, se non viene applicata con senso di responsabilità, finisce per essere lettera morta o, peggio, per creare più disfunzioni rispetto allo status quo. Sul piano attuativo, il primo passo sarà la redazione dei nuovi statuti che definiscano nei dettagli la governance, con rappresentanti della società civile nel Cda (pur in minoranza), una diversa composizione del senato accademico e gli organi di controllo; la legge prevede termini brevi e, in caso di inosservanza, poteri sostitutivi da parte del governo; le università dovranno pertanto muoversi con tempestività e coerenza, senza tentare una difesa ad oltranza della situazione precedente alla riforma.
Dovranno essere poi essere messi a regime, sul piano nazionale, gli enti di valutazione, cruciali perché il sistema si muova verso la valorizzazione del merito; processo non facile in verità, visto che la definizione di indicatori, di parametri e di modalità di misurazione sono questioni grandemente complesse. Bisognerà, ancora, dare attuazione al reclutamento dei nuovi docenti nonché alla stabilizzazione del precariato in modo da non ricreare blocchi che vadano a scapito dei giovani e dei bravi: toccherà alla classe accademica far sì che tutto ciò non riproponga localismi e logiche baronali, non più tollerabili se si vuole che il nostro sistema di alta formazione possa affacciarsi alla competizione internazionale dopo esserne stato troppo a lungo emarginato.
I processi di rinnovamento si presentano pertanto lunghi, complessi e, anche, di esito incerto. Occorre infatti riorientare i singoli atenei verso logiche di produttività scientifica, di cura per la didattica, di coerenza con i parametri valutativi (da conoscere con certezza per potervisi adeguare), di aggregazione in vista di una maggiore efficienza economica. Occorrerà saper sperimentare, programmare, creare non solo codici etici ma anche comportamenti caratterizzati da una maggiore eticità, questa inevitabilmente lasciata nelle mani dei singoli. Occorrerà infine evitare al massimo la centralizzazione e favorire spazi di decisione per le realtà regionali in grado di fare sinergie con le università: autonomia regionale ed autonomia universitaria possono ben coordinarsi ed agire insieme per creare un sistema universitario migliore di quello odierno senza scippare competenze costituzionalmente garantite, come quella sul diritto allo studio.
Questo, insomma, è il compito che – espletate le procedure legislative – spetterà a tutti gli attori, dal territorio alla società civile, dalla politica all’economia e alla comunità accademica, a studenti e a docenti. Fatta l’Italia, come si dice, bisognerà fare gli italiani. È bene infatti che non ci si accontenti di una legge la quale, per quanto mossa da buone intenzioni e ricca di spunti positivi, potrebbe essere come le note grida manzoniane se non vedrà, nel momento della sua attuazione, gente capace di un impegno forte, costante, responsabile, in grado di valorizzare quegli elementi di novità che sono già presenti non solo nella legge ma soprattutto in questo universo contraddittorio, problematico, pieno di contraddizioni ma anche ricco di spunti positivi e di esperienze di vera educazione che è l’università italiana.