Nel 2006 Erasmo Recami, docente di fisica all’Università degli Studi di Bergamo aveva pubblicato su Emmeciquadro una accurata ricostruzione della vicenda del grande fisico del gruppo di Fermi. Recami è il principale studioso della storia scientifica e umana di Ettore Majorana: ha raccolto una quantità di documenti e testimonianze sul “caso”, fornendo materiale allo stesso Leonardo Sciascia che lo nomina quale fonte. Nell’articolo avanzava anche una sua ipotesi sulla scomparsa; ipotesi che si sente di confermare anche di fronte alla ultime notizie circa la presunta presenza di Majorana in Venezuela dal 1955 al 59. Così ha dichiarato a ilsussidiario.net: “Con tutto il rispetto per il lavoro tecnico dei RIS e della Procura, personalmente non credo alla identificazione! Un cuoco o sommellier decide più per intuito, esperienza, colori, profumi, sapori che non per analisi chimiche e tecniche. In base alle mia conoscenza del Majorana, non credo a quei risultati”. Riproponiamo qui una parte di quell’articolo; la versione completa si può trovare sul n. 26 di Emmeciquadro.
Il venerdì 25 marzo del 1938 Ettore Majorana, all’età di anni trentuno, professore di Fisica teorica «per l’alta fama di singolare perizia» presso l’Istituto di Fisica della Regia Università di Napoli dal novembre dell’anno precedente, imposta la seguente lettera per il direttore dell’Istituto, Antonio Carrelli, che la riceverà alle ore 14 del giorno dopo: «Napoli, 25 marzo 1938, XVI. Caro Carrelli, ho preso una decisione che era ormai inevitabile. Non vi è in essa un solo granello di egoismo, ma mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti. Anche per questo ti prego di perdonarmi, ma soprattutto per aver deluso tutta la tua fiducia, la sincera amicizia e la simpatia che mi hai dimostrato in questi mesi. Ti prego anche di ricordarmi a coloro che ho imparato a conoscere e ad apprezzare nel tuo Istituto, particolarmente a Sciuti, dei quali tutti conserverò un caro ricordo almeno fino alle undici di questa sera, e possibilmente anche dopo. Ettore Majorana». Sul tavolo del suo alloggio, presso l’albergo Bologna di Via Depretis in Napoli, da cui esce verso le ore 17, ha lasciato una busta, Alla mia famiglia, con all’interno queste poche righe: «Napoli, 25 marzo 1938, XVI. Ho un solo desiderio, che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all’uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi. aff.mo Ettore».
Quindi, intascato il passaporto e ritirato lo stipendio relativo ai suoi primi tre o quattro mesi e mezzo di cattedra universitaria, sale sulla nave il Postale, della compagnia navale Tirrenia che fa servizio tra Napoli e Palermo. Il piroscafo salpa alle ore 22 e 30’. Tutto fa pensare che egli intenda mettere fine alla sua vita o comunque sparire. Il giorno seguente, sabato, sbarca invece a Palermo, spedisce subito a Carrelli un telegramma urgente col quale annulla la lettera da Napoli e prende alloggio in Corso Vittorio Emanuele, al Gran Hotel Sole. Su carta intestata di questo hotel scrive a Carrelli una seconda lettera, che costituisce l’ultimo documento autografo rimastoci: «Palermo, 26 marzo 1938, XVI. Caro Carrelli, spero che ti siano arrivati insieme il telegramma e la lettera. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all’albergo Bologna, viaggiando forse con questo stesso foglio6. Ho però intenzione di rinunciare all’insegnamento. Non mi prendere per una ragazza ibseniana perché il caso è differente. Sono a tua disposizione per ulteriore dettagli. aff.mo E. Majorana».
Il giorno dopo, domenica, il Postale riparte la sera da Palermo per Napoli, ove ne è previsto l’arrivo alle 5 e 45’ del mattino del lunedì e Majorana acquista un posto in cabina. Tutto lascia ora credere che voglia rientrare a Napoli; invece, o durante il tragitto o subito dopo (o subito prima) egli scompare.
Prima
Parte essenziale dell’epistolario, da noi rinvenuto nel 1972, sono naturalmente le missive scritte nel 1938 da Napoli. L’esame di queste mostra un salto improvviso tra il tono delle ultime lettere e quello delle precedenti. Alla famiglia, per esempio, Ettore era solito inv i a r e scritti equilibrati, forse controllati, esplicativi, ricchi di umorismo, affettuosi e lunghi. Il 23 febbraio, un mese prima di sparire, racconta alla madre, dall’albergo Bologna di Napoli: «Oggi mi daranno una stanza su via Depretis, da cui potrò vedere fra tre mesi il passaggio di Hitler! Siete guarite dai vostri piccoli raffreddori? Verrò forse dopo Carnevale. Saluti affettuosi – Ettore». Il 12 gennaio, nel ringraziare il Ministro per l’alta distinzione concessagli con la nomina a Ordinario fuori concorso, aveva scritto, come ricorderemo «tengo ad affermare che darò ogni mia energia alla scuola e alla scienza italiane». Perciò, quando il 22 gennaio chiede che il fratello Luciano gli mandi la sua parte di conto in banca, c’è da credere che, in quel momento, pensasse solo alla propria sistemazione fissa in Napoli. Questa intenzione, di avere un posto dove vivere per i fatti suoi, trapela ancora da ciò che scrive al fratello Salvatore una settimana prima della scomparsa:
«Napoli, 19 marzo 1938, XVI – Caro Turillo, […] Vedrò se è possibile avere il libretto per la mamma, ma non vedo come si possa affermare la convivenza perché io ho l’obbligo di prendere la residenza a Napoli, anzi l’ho già presa provvisoriamente qui in albergo, alias via Depretis 72». E ci sembra che l’agire di Ettore non sia solo un ossequio all’obbligo di risiedere nella stessa città in cui esercita l’insegnamento. Ma quel sabato 19 marzo Ettore, portato a un termine il proprio interiore travaglio, aveva presumibilmente già preso la sua «ormai inevitabile » decisione. Non vi era in essa «un solo granello di egoismo», come dire che per lungo tempo, forse per anni, si era chiesto in cuor suo se poteva moralmente prendere questa decisione, o se essa gli era proibita perché dettata almeno in parte da esigenze egocentriche.
Forse volgeva tali pensieri nel suo animo, a tratti, fin dal 1934, fino a convincersi della necessità di una decisione che come tale, cioè necessaria, era ormai purificata da ogni grano di egoismo. Ed Ettore si accinge a realizzare il suo meditato e sofferto progetto, a dare inizio alla sua «costruzione» – le parole che normalmente si usano in questi casi, come «messinscena», non si prestano al suo caso – già probabilmente questo sabato. Invia infatti un telegramma a Roma con il quale disdice il suo arrivo per trascorrere a casa, come faceva di consueto, la domenica. E quindi scrive a Turillo, il fratello maggiore: «Per ora non vengo perché lunedì ho alcune faccende da sbrigare […]. Vi mando un telegramma perché non mi aspettiate stasera, ma verrò certamente sabato prossimo». Poi una settimana di silenzio epistolare.
Il «sabato prossimo» sarà quello dell’ultima sua lettera, 26 marzo, da Palermo a Carrelli. Venerdì 25 riprende in mano la penna. Nella lettera, la prima, a Carrelli, si rende conto, dice, «delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti». «Anche la parola scomparsa, in luogo di morte o fine, crediamo che sia stata usata perché venisse intesa come eufemismo, mentre non lo era», questa l’ha detto Leonardo Sciascia.
Ma nella stessa lettera, nel chiudere, aggiunge: «[…] dei quali tutti conserverò un caro ricordo almeno fino alle undici di questa sera e, possibilmente, anche dopo». Vuole far credere che le undici siano l’ora del pensato suicidio; esse sono, invece, banalmente, l’ora della partenza: la nave era prevista partire alle 10 e 30’ di sera, approssimando, o calcolando un ragionevole ritardo, le 10 e 30’ diventano le ore 11. Infine con le ultime parole, «e possibilmente anche dopo», vuole far credere a un estremo omaggio alle speranze della religione, mentre il loro significato, ancora una volta, è quello letterale: e questo lo aggiungiamo noi. Ma si tratta del medesimo gioco al limite dell’ambiguità che la sensibilità di Sciascia ha avvertito.
Durante
Perché, si chiede Pirandello, quand’uno pensa di uccidersi, s’immagina morto, non per sè, ma per gli altri? Proseguendo in questi pensieri, Vitangelo Moscarda rinnovella il suo tormento con questa domanda: «Se non sarebbe stato quello il momento di farla finita, non tanto per liberarmi di esso tormento, quanto per fare una bella sorpresa all’invidia che molti mi portavano […]». A Ettore non piace immaginarsi morto, neppure per gli altri. Prima di uscire dall’albergo, prima di salpare, lascia la lettera Alla mia fami – glia: «Ho un solo desiderio: che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all’uso, portate pure, ma non per più di tre giorni, qualche segno di lutto»; si tratta di una concessione alla realtà sociale, «ma per non più di tre giorni», i tre giorni del lutto stretto siciliano. «Dopo – semplicemente egli chiede – ricordatemi nei vostri cuori e perdonatemi».
Citare Pirandello nel caso Majorana non è certo una cosa nuova. Ma senza forzare la realtà possiamo immaginare che davvero, su quello stesso comodino ove lascia la lettera alla famiglia, Ettore tenga Schopenhauer, Shakespeare e Pirandello; pure lui siciliano, gloria di Agrigento insieme a Empedocle, così come Bellini, Verga e ora Majorana, sono glorie di Catania.
Ancora non conosciamo il perché della decisione di Majorana, ma le carte ce ne suggeriscono intanto il come. Quante volte Ettore avrà letto, e cosa più suggestiva, visto a teatro, Il fu Mattia Pascal? «Chissà quanti sono con me, nelle mie stesse condizioni, fratelli miei. Si lascia il cappello e la giacca, con una lettera in tasca, sul parapetto d’un ponte, su un fiume e poi, invece di buttarsi giù, si va via tranquillamente in America o altrove». Ed Ettore esegue esattamente, sa che le cose più banali sono le meno credute. Solo che in tasca si mette passaporto e soldi – quei soldi che abbiamo calcolato equivalere ad almeno 5 o 10 mila dollari di oggi – e la lettera la lascia sul comodino.
Così Ettore se ne va. Con una nave o con la prima delle navi del suo progetto. In tutti gli ultimi anni, il suo risvegliato amore per le navi era solo interesse matematico per la strategia navale, o attenzione ingegneristica ai caratteri costruttivi delle navi, o non era piuttosto il sintomo esteriore di un desiderio ancora inconfessato di fuggirsene lontano oltre il mare? A quel tempo in Italia chi emigrava sognava l’Argentina. Lo stesso Mattia Pascal, subito dopo aver nominato l’«America o altrove » precisa i suoi pensieri con un nome: Buenos Aires. Ettore così se ne va via, ma non tranquillamente. Neanche Mattia se ne va tranquillo. Ed Ettore non è Mattia Pascal.
Durante quella notte in nave, tra Napoli e Palermo, la sua mente e il suo cuore non hanno riposo, anche se riesce a dormire. La polizia, i colleghi, gli amici lo crederanno morto e non lo cercheranno, proprio come lui voleva, lo scopo che si era ripromesso con le sue lettere dalla calligrafia, come sempre composta e ordinata, «preordinata» dice Sciascia. Ma ancora una volta pensa: ma la famiglia? La madre? Intenderanno, invece, i famigliari che lui ha lasciato loro una speranza? La sua decisione risponde a esigenze oggettive, appartiene quindi, al mondo delle cose necessarie, giuste, etiche. Ma non riceveranno i famigliari un dolore troppo acerbo? I dubbi di sempre riprendono il sopravvento, anche in lui che, quando non aveva a che fare con i sentimenti umani, bensì con le serene, imperturbabili e alte cose della natura, sapeva edificare architetture di pensiero vertiginose, ma stabili, sapeva calcolare ogni armonico rapporto con maestria ineguagliata.
Appena sbarcato a Palermo invia il telegramma urgente che conosciamo che giunge nelle mani di Carrelli quella stessa mattina alle ore 11. Ettore sa che Carrelli, come tutti, ha pensato al suicidio, e nella lettera che fa seguire dice pertanto «il mare mi ha rifiutato» non senza una nota della consueta amara auto-ironia. Forse per un poco pensa davvero di rinunciare, facendo sacrificio di sé, al suo progetto e di tornare. Ma non in Istituto, a casa, anzi all’albergo Bologna, la sua casa. Forse pensa davvero di ritornare perché specifica: «Ho però intenzione di rinunciare all’insegnamento». Troppo gli peserebbe questo nuovo e ulteriore compito di comportarsi come gli altri gli chiedono, di porsi sullo stesso piano sul quale tanti altri vivono e lì lo vogliono incontrare; e gli altri sono tanti; e quasi nessuno che si ponga almeno il problema di incontrarlo sul suo piano. «Troppo era già compreso dall’orrore – scrive Pirandello – di chiudersi nella prigione d’una forma qualunque». E si difende: «Non mi prendere per una ragazza ibseniana, perché il caso è differente».
Ma ormai, col prendere la risoluzione che aveva preso la settimana passata aveva già operato il taglio più difficile. E sa guardare alla propria vicenda con sufficiente distacco da dirne: «Il caso è differente». E neppure dice «il mio caso», si tratta solo di «un caso» differente. Si rende conto che, ormai, una speranza l’ha davvero concretamente lasciata ai famigliari e può quindi proseguire con il suo programma. «Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso – scrive ancora Pirandello -. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita […] Tutto fuori, vagabondo […]. Così soltanto io posso vive r e , ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavo rare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni».
Naturalmente Moscarda non vive sul «piano» di Ettore e forse nemmeno riesce a immaginarlo. Né va dimenticata l’ammonizione di Enrico Fermi: «Con la sua intelligenza, una volta che avesse deciso di scomparire (o di far scomparire il suo cadavere), Majorana ci sarebbe riuscito». Ma vale la pena sentire cosa ha da dire un critico di Pirandello, G. Croci: «Come Mattia Pascal, il morto-vivo dell’omonimo romanzo, Moscarda protagonista di Uno, nessuno e centomila, si trova impegnato in un disperato esperimento: quello di ricostruirsi un’esistenza svincolata dai condizionamenti imposti dalla natura e dalle convenzioni, e di affermare la propria personalità autentica mediante un atto di libera scelta».
Una concreta speranza, con la sua macchinazione, Ettore l’ha ora lasciata alla famiglia. Si che la madre resterà convinta che il figlio non si fosse suicidato e tale convinzione serbò per tutta la vita, tanto da lasciargli la sua parte nel testamento.
Dopo
Le testimonianze più serie in nostro possesso suggerirono che Ettore se ne andò davvero «In America o altrove», anzi proprio in Argentina, e nei pressi di Buenos Aires, forse a Rosario o a Santa Fé. Esse sono tre e indipendenti. Dal professor Carlos Rivera, direttore dell’Istituto di fisica dell’Università Cattolica di Santiago del Cile; da Blanca de Mora, vedova dello scrittore Miguel Arturias, premio Nobel 1967 per la letteratura; del direttore della casa editrice Losarda di Buenos Aires. Queste testimonianze, poi confermate, ci sono state segnalate ripetutamente dagli illustri fisici Tullio Regge e Yuval Neeman, dalla nota pittrice Carla Tolomeo e dal critico e scrittore milanese Giancarlo Vigorelli.
Senza affrontare qui il problema del perché di tale scomparsa, concludiamo con le parole dell’italiana Aurora F. Bernardini, critico che opera a San Paolo del Brasile: « L’ipotesi credibile e fondamentata di una sopravvivenza di Majorana è non solo più generosa, ma più rivoluzionaria, o almeno più progressista, del comodistico suicidio […] Scartando il luogo comune secondo il quale il genio dei fisici è precoce e di vita breve, o che un fisico può avere un grande talento nel suo ambito ed essere un imbecille nel resto, stando a quanto si sa di Majorana non rimane che credere che in lui la genialità abbia anticipato la scoperta della sua verità. O della verità tout- court che, Ivan Ilic di Tolstoj, scopre solo prima di morire. Quali sono i momenti veramente vivi della vita? Ognuno ha la sua risposta, quasi sempre in ritardo. Majorana l’avrebbe avuta prima. Sarebbe molto utile, per l’odierna umanità, il suo legato in proposito. Forse ancora più utile, honni soit…, che il suo legato in quanto fisico».