Caro direttore,
Nel gioioso coro degli interventi encomiastici riguardanti il film Silence di Scorsese c’è quello a cura di E. Morreale (l’Espresso), che si esprime in questi termini: “Una visione in fondo più moderna e più saggia del confronto fra religioni e culture”. Tale giudizio è la cartina al tornasole in grado di testare appieno la qualità e il grado di piacevolezza con cui molti hanno recepito il messaggio chiave del film di Scorsese nel milieu del pensiero debole e del policentrismo religioso, che si sazia di ogni stimolo esteticamente apprezzabile per sostenere che in fondo tutte le religioni alla fine si equivalgono. Se poi tali verità sono consacrate da un'”opera d’arte” come il film di Scorsese, tanto meglio.
Dissociandomi da quell’entusiastico e stolido coro laicista, preferisco schierarmi dalla parte di Mattia Ferraresi che in un suo sobrio e intelligente articolo uscito sul Foglio definisce il film “una farsa insidiosa”. Ora, lasciando da parte la questione se il film di Scorsese sia un’opera d’arte o meno, esso tocca delle tematiche estremamente gravi, concernenti la fede e la Verità di fronte alle quali non si può tacere. Nessun artista infatti può porsi od essere posto al di là delle questioni di fede che va a toccare, e tanto più nessuna opera d’arte, la quale in quanto opus, opera dell’uomo, ne rimane invece giudicata, messa maggiormente in luce o in ombra, non tanto in qualità delle sue proprietà artistiche, quanto in conseguenza della natura ontologica stessa della fede che la giudica (“l’uomo spirituale giudica tutte le cose” I Cor 2, 15). E nessuna opera d’arte, toccando delle questioni di rilevanza storica, pur mescolando l’inventio al verum, può poi sottrarsi al confronto con la storia che ha tirato in ballo.
Nella fattispecie quindi è d’obbligo porsi domande quali, ad esempio: se Scorsese nella sua libertà di artista ha ripreso quei fatti storici narrati da Endo, perché a sua volta nella sua libertà di artista non ha fatto menzione alcuna del prosieguo della storia di Ferreira che infine accetta di farsi nuovamente calare nella fossa per morire martire? È proprio infatti dell’artista nella sua libertà arrivare dove vuole, e non là dove si ferma la sua fonte principale: il romanzo di S. Endo in questo caso.
Esistono poi degli interrogativi più profondi concernenti la fede a cui il film non offre risposta e di fronte ai quali non si può tacere proprio dal punto di vista cristiano dell’esperienza, della fede e dell’esperienza di fede. Quello di fondo concerne la questione del “silenzio di Dio”: un tema che, pur presente nell’ebraismo, non attraversa affatto né l’Antico né il Nuovo Testamento, né i due millenni di vita della Chiesa, e del quale S. Giovanni della Croce dice che è blasfemo perfino supporlo!
Non a caso noi crediamo che Gesù Cristo il Nazareno, figlio di Maria, è Verbo di Dio che illumina tutti gli uomini. Lo crediamo per grazia, quella grazia che illumina la fede e l’intelletto dei martiri, ma non la coscienza di padre Rodrigues, la cui vita non parla affatto del Dio la cui fede egli è sempre più incapace di professare nel suo agire concreto. Il suo “amore all’altro” prescinde dalla consapevolezza che la Sua grazia vale più della sua stessa vita (Sal 62, 4), e che il comandamento dell’amore verso il prossimo viene dopo quello dell’amore verso Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. La fede stessa è, infatti, un dono di Dio, una grazia, a cui l’uomo è chiamato a rispondere, non “un rapporto d’amore” in cui le due parti hanno una posizione paritetica. Né può esistere un vero amore al di fuori dell’amore di Dio, che è Amore, ma è anche Verità e non può quindi rinnegare se stesso, come quando nel film dice a padre Rodrigues: “Calpestami”.
Il dio di padre Rodrigues è un dio a sua immagine: quell’immagine sbiadita e deforme che appare quando egli si specchia nell’acqua poco prima della sua cattura. Il personaggio è coerente dunque con se stesso fino alla fine e non subisce alcuna evoluzione: ancor prima di essere sottoposto personalmente al rito dell’abiura egli dice ai suoi fedeli: “Calpestate”. Ed è ciò che egli fa fino alla fine, anche dopo l’abiura, continuando a compiere quell’atto sacrilego e inducendo altri a compierlo.
Il fatto che egli dica: “Alla fine nel silenzio Ti ho trovato” non corrisponde di fatto a nessun cambiamento, a nessuna metànoia nella sua squallida esistenza. Non c’è pentimento né confessione. Il tentativo di giustificazione cristologica della fede di padre Rodrigues evocando il dramma del cuore dell’uomo non è dunque sostenibile, e un breve excursus dal campo della finzione filmica al terreno ben più solido della realtà storica ci suggerisce che se ancor oggi la fede in Gesù Cristo è viva in Giappone non lo dobbiamo certo a figure come quella del protagonista del film.
La concezione che Scorsese ha della permanenza di Dio in qualunque condizione è di matrice gnostica e di esito panteistico e riecheggia il motto spiritistico dell’oracolo di Delfi: “Vocatus atque non vocatus Deus aderit”. È questa infatti la frase, ripresa da Jung, che il regista fa sua nell’intervista a Civiltà Cattolica. La presenza di Dio chiede invece all’uomo una risposta, sollecitando la sua libertà. Nessuno è obbligato a credere; tale presenza infatti ci interpella chiedendoci quindi un’adesione.
L’idea che la presenza di Dio permanga nell’uomo a prescindere dalla sua risposta, quasi come una pura e semplice autoaffermazione, presuppone una falsa concezione della libertà dell’uomo e della sovranità di Dio. Nella storia di padre Rodrigues non c’è quindi alcuna kenosis, perché non c’è la croce: la kenosis del Figlio di Dio infatti non è altro che “obbedienza fino alla morte e alla morte di croce”. Non a caso questo tema viene toccato nel film di Scorsese L’ultima tentazione di Cristo: se Gesù si fosse fermato prima di salire sulla croce, la sua sarebbe stata una vera kenosis?
Occorre infine sgomberare definitivamente il campo dall’idea consequenzialista, suggerita nel film, in base alla quale si sarebbe responsabili, accettando il martirio anche a costo della conseguente esecuzione dei cristiani compagni di sventura, della morte altrui perpetrata da altri, chiamando in causa, in funzione cosmetico-consolatoria, l’amore o la compassione. Se fosse vera l’impostazione della domanda dei persecutori, allora Gesù Cristo sarebbe moralmente imputabile della morte di tutti i martiri cristiani dal primo secolo fino al momento presente.
Il film Silence ci porta non addentro all’insondabilità del mistero di Dio, ma all’impenetrabilità di quella palude che non è tanto il Giappone, come dice l’Inquisitore, quanto piuttosto il cuore dell’uomo quando questi è ormai divenuto insensibile alla luce del Verbo di Dio e si è costruito un dio a propria immagine: quell’immagine deformata e paradossale che Rodrigues vede specchiandosi nell’acqua prima della sua cattura. Manca in lui la luce del Tabor, quella che illumina ogni uomo, ma non senza che questi si lasci da essa liberamente compenetrare.