Il Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Milano Enrico Decleva, commenta con toni positivi il ddl Gelmini sulla riforma degli atenei nazionali, ma guarda con apprensione ai tempi e ai finanziamenti per rimettere in moto l’intero sistema accademico. Al sussidiario.net racconta quali saranno i prossimi fondamentali passaggi per l’università
Rettore Decleva, qual è la sua prima impressione sul ddl Gelmini inerente la riforma dell’Università italiana?
L’impressione è che si sia fatto un lavoro molto rilevante di messa a fuoco di molte questioni “calde” e delle possibili soluzioni, rispetto alle versioni di decreto parzialmente anticipate. Oltre alla governance e al reclutamento, ci sono interventi che riguardano l’accreditamento, aspetti di stato giuridico, retribuzioni, assegni di ricerca, diritto allo studio, insomma è una legge che senza, evidentemente, affrontare tutto prende però di petto molti dei nodi principali della vita universitaria, li affronta in un’ottica coerente e collegata.
Che cosa in particolare le piace di questo ddl?
Che una volta tanto non è una legge che riguarda solo il reclutamento dei professori, bensì altri aspetti: la struttura organizzativa, la posizione degli studenti. C’è una forte accentuazione sull’elemento della valutazione, insomma è una legge impegnativa. Vediamo che a un giorno solo dalla sua approvazione (il testo finale non è ancora noto) si sta già assistendo a prese di posizione polemiche. Questo significa che si tratta di un testo che va a colpire dove doveva colpire. Tant’è che molti stanno evocando fantasmi di antica memoria politica.
Si riferisce a chi definisce questa legge “statalista”?
Sì, in parte, ma si tratta per lo più di reclami di comodo, di coloro che vogliono mantenere le cose come stanno. È importante invece che l’iter decisionale sia il più possibile rapido ed efficace, tenuto conto che sono anni per non dire decenni che si aspetta di intervenire sul collasso in cui versa l’intero sistema universitario e i problemi si accumulano. Tra lavori parlamentari, sistemazioni che poi devono essere svolte dalle singole sedi, elaborazione dei decreti delegati è presumibile che il 2010 debba passare ragionevolmente fra il parlamento e le operazioni universitarie per adeguare gli statuti. Il 2011 dovrebbe essere, possibilmente, il vero anno di applicazione, per quanto possibile, della riforma. I tempi quindi non sono rapidissimi, ma è essenziale che siano però tempi relativamente brevi, come questi, perché la situazione degli atenei è obiettivamente urgente.
C’è qualcosa nel provvedimento che non la convince fino in fondo?
Quello che credo vada rilevato è che non penso che si possa immaginare la presentazione di un ddl di questa entità senza pensare anche a una destinazione di risorse che potranno sì essere contenute il primo anno, anche per la situazione nella quale ci troviamo, ma che dovranno poi crescere nel corso del tempo. È giustissimo e anzi quanto mai positivo che si immagini un incremento delle retribuzioni iniziali dei ricercatori o degli assegnisti, però per fare questo occorrono soldi. E quindi forse il primo vero “passaggio”, al di là dell’avvio della discussione parlamentare che richiederà comunque dei mesi, è quello che si vedrà nella finanziaria, la quale dovrà essere approvata entro la fine dell’anno, in relazione ai finanziamenti per l’università. Quella sarà un po’ la cartina tornasole. È chiaro che alle università non si chiede poco. L’impegno a modificare l’assetto è oneroso e questo quindi va sostenuto. Va individuata una prospettiva effettiva di crescita. Non ha senso immaginare una forma nuova e certamente più adeguata di reclutamento se poi non si recluta nessuno perché non ci sono i soldi per farlo.
Come considera i provvedimenti in merito alla figura dei ricercatori?
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Li trovo efficaci e come ateneo li abbiamo anche sostenuti. Il superamento della figura del ricercatore, che poi, occorre ricordare, non ha mai avuto stato giuridico in quasi trent’anni, è più che auspicabile. E viceversa è da salutare la creazione di una figura che sia a tempo indeterminato, che possa dimostrare tutte le sue capacità in un tempo relativamente breve e che possa trovare una collocazione adeguata non a livello di ricercatore, ma a livello di professore associato. Il principio è questo. Se funzionerà, e qui di nuovo l’essenziale sono le risorse, avrà effetti sostanziali perché ci sarà una maggiore competitività per ottenere tali posizioni. I più meritevoli saranno spinti a restare e quindi a lavorare attivamente. Si può facilmente arguire quanto ciò sia positivo dal punto di vista dell’effetto in termini di risultati, di ricerca, di formazione di capitale umano. Nel frattempo ci dovrebbe essere un numero adeguato di posti da professore associato messi a disposizione in modo che una parte cospicua dei ricercatori attuali, che hanno lavorato e lavorano, assuma rapidamente tale ruolo.
E per quanto riguarda i meccanismi di valutazione dei docenti?
Anche questo principio è senza dubbio sano. Naturalmente occorre che si instauri una mentalità, per cui questa valutazione non si riduca ad una sanatoria per tutti, che non significherebbe nulla, oppure in una forma di discriminazione, insomma in cui ci sia una visione obiettiva di quanto uno ha lavorato o non ha lavorato. Legare a questo l’incremento delle retribuzioni mi sembra un modo per valorizzare chi lavora rispetto a chi fa poco. Tale procedura si presenta comunque migliore delle forme di contratto locale che rendono difficile la vita accademica. È una norma che vale per tutti però non tutti saranno in grado di mettersi nelle condizioni di approfittarne, anche se è auspicabile che lo facciano perché vorrebbe dire che il reclutamento ha funzionato.
C’è chi ha tacciato questo ddl come una sorta di ritorno allo statalismo perché ha evitato di ispirarsi alle best practices puntando a “normalizzare” allo stesso modo tutti gli atenei. Che cosa ne pensa?
L’accusa fa il paio con quella dell’aziendalizzazione dell’università, entrambe sono tendenziose. Io credo che l’autonomia universitaria sia un valore fondamentale, un criterio fondamentale di funzionamento, però autonomia non significa assenza di regole, significa anche rispetto di norme e di alcuni vincoli. C’è una sorta di schizofrenia in queste discussioni per la quale da un lato si dice tutto il male possibile dei professori, dell’università, dell’accademia, dei sistemi di reclutamento e via dicendo, dall’altro si afferma che occorrerebbe l’autonomia. Forse ci sarà qualche limite all’autonomia, ma tutto il grosso delle risorse, bisogna ricordarlo, proviene dallo Stato. Quindi che a un certo punto scatti un meccanismo di garanzia e di verifica rispetto ai comportamenti non mi sembra una cosa tanto scandalosa. Troppe volte insomma l’autonomia quando significa “responsabilità” si preferisce non averla, mentre quando intervengono delle regole viene evocata per evitarle.