Generazioni di maturandi, presso licei e istituti tecnici di tutto il Paese, si sono misurate, nelle loro prove scritte di italiano, con la “crisi del Novecento”, espressione invero abusata quanto sostanzialmente veridica. È un peccato che la cultura, sia quella di massa sia quella di certo convenzionalismo accademico, abbia rimosso dalle radici di quel dibattito il poeta italiano che il Novecento ha attraversato (quasi) per intero: Mario Luzi (1914-2005), scrittore fiorentino così poco urlato ed esibito che anche l’Accademia del Nobel ha dimostrato di ignorarne a lungo l’esistenza.
Grande poeta, senz’altro, Luzi non mancò di ottenere risultati importanti anche in altri ambiti delle belle lettere: drammaturgo, critico cinematografico, studioso di letteratura francese, con una metodologia rigorosa e certosina, ma attenta anche al dato filosofico-morale. Poeta soprattutto, per i grandi che lo hanno conosciuto di persona, magari suscitando, tanto nella critica quanto nel pubblico, un superiore apprezzamento rispetto all’autore fiorentino (ne tessevano lodi Andrea Zanzotto ed Edoardo Sanguineti, un poeta col gusto della critica letteraria e un critico letterario col gusto della poesia).
Quasi ottant’anni di versi abbracciano più vite, e si contrappongono a infiniti cicli di mode e letterati, in un Paese, come l’Italia, che ha sempre fatto vanto, dalla fine del XIX secolo, di saper (discutibilmente) riconoscere chi meglio si inseriva nel filone del momento. Da La Barca del 1935 fino a Poesie ultime e ritrovate del 2014 c’è un viaggio che supera, con decoro e modestia, e momenti di lirismo inarrivabili, una guerra, una ricostruzione, la retorica impegnata dei decenni delle lotte, lo schiacciante riflusso degli anni Ottanta e le tentazioni neoaccademiche che iniziano nei Novanta e si protraggono fino alla prima decade del nuovo Millennio.
Luzi era duplicemente controcorrente, pur se non ne faceva medaglia, anche perché di sé non sospettava eccezionali meriti. Conservò la sua poesia priva delle mode, dei “temi caldi” per il tempo di un ballo e di una stagione, ma al tempo stesso fu radicalmente antitetico rispetto alla poesia dei social, alla poesia “diffusa” delle auto-pubblicazioni, dove accanto a versi buoni e semisconosciuti si trovano pure alcune imbarazzanti digressioni autocompiaciute.
Qualcuno tacciò Luzi di conservatorismo, non intendendo tanto la visione politica, quanto, in realtà, l’avere mantenuto il medesimo canone letterario: da un lato, l’adesione all’ermetismo, il lutto mai rielaborato per la sua sconfitta storica, l’ostinata devozione alla musicalità interrotta del verso ermetico; dall’altro, la costante apertura a una metafisica naturalista, che incrocia, senza erudizione sfacciata, il cupo sant’Agostino delle Confessioni e le speranzose deviazioni di Spinoza e del suo “Deus sive natura”.
Attaccamento alla natura, in Luzi, ne troviamo, eccome. Una natura che non è raccontata nella sua sensualità come in D’Annunzio, nel suo richiamare lo slancio, il furore, il talamo e l’alabarda. Bensì, con lo sguardo fresco, incantato, rispettoso, di chi in essa vede il miracolo dell’irripetibile. Eppure, considerare otto decenni di produzione artistica come l’inesausta duplicazione di un mondo già cantato ed inventato fa torto a Luzi, che a modo proprio fu pure sperimentatore: nelle ambientazioni (dall’esotismo fino alla campagna toscana, dai toni arcadici fino al dolore per la dipartita civiltà contadina e l’alienante civiltà urbana, dagli slanci ironici alle liriche d’amore), nell’uso del monologo o del dialogo, come forma di condivisione dell’io narrante anche rispetto al discorso poetico, nel rapporto col Classico, privo di prosopopea didascalica.
Dodici anni che questo poeta non è più. Senza la grancassa, ha preferito l’arpa. Non voleva il Nobel, lo fecero senatore a vita. Ma quanto gliene importasse poco non è dato precisare: pochi mesi dopo l’onorificenza, tornava nel suo borgo. Castello di Firenze, casa, radice e punto di partenza. Non esisterebbero porti se non ci fossero le ancore.