La parola che sta facendo tremare molte amministrazioni locali è «accorpamenti». Il concetto è semplice: stop alle scuole con meno di 600 alunni, 400 nelle zone di montagna. Là dove il numero di studenti è inferiore a queste soglie, gli istituti dovranno accorparsi. Il che vuol dire, oltre a comprensibili difficoltà organizzative, molti posti di dirigente scolastico e di Dsga (direttore servizi generali e amministrativi) in meno. La riforma però si deve fare, lo dice la legge di stabilità dello scorso luglio (Dl 98/2011); risparmiare è un imperativo che non ammette deroghe, e la diffusione capillare, troppo a dire il vero, degli istituti sul territorio è una delle voci di spesa che reclamano una riduzione, e subito. «Il Sole 24 Ore» di ieri riportava le cifre: 3.138 istituti coinvolti, di cui ben 478 in Campania, 314 in Puglia e 242 in Calabria; 1.331 posti in meno da dirigente scolastico e 1.569 da Dsga.
È al sud che si gioca il buon esito dell’operazione, le Regioni sono gli enti che devono gestire la riforma. È polemica sui criteri che ispirano gli accorpamenti; serve un Piano, dicono molti assessori comunali, e per questo chiedono tempo. «Ma è una cosa che si deve fare – spiega a Ilsussidiario.net Luigi Berlinguer, europarlamentare del Pd ed ex ministro dell’Istruzione – non dimentichiamoci che siamo, è il caso di dirlo, in tempo di guerra. Ma se il centrodestra non avesse cancellato la mia riforma…».
Professore, gli accorpamenti fanno discutere le amministrazioni locali. E molti presidi salteranno.
Vorrei fare una premessa. Una cosa sono le politiche educative in tempo di pace, altra cosa è la situazione in tempo di guerra. Sui presidi, va detto che un cambiamento profondo del nostro sistema educativo deve incentrarsi sull’autonomia e sul ruolo prevalentemente educativo, e non burocratico, del dirigente scolastico. Su questo, però, siamo indietro; le nostre modalità di reclutamento dei presidi non si sono dimostrate serie. Non vanno a valutare la leadership educativa oltre che gestionale dei dirigenti.
D’accordo. Ma risparmiare si deve, non le pare?
Era per dire che dal punto di vista dell’amministrazione restiamo un paese ottocentesco. Fatte queste considerazioni, non si può negare che «accorpamento» non significa sopprimere scuole. È quello che purtroppo molti giornali hanno lasciato intendere nei loro titoli, sapendo che la maggioranza dei lettori legge solo quelli. Tutto ciò non risponde al vero: le scuole investite da questa misura sopravvivono integralmente.
Dunque, condivide il piano di ridimensionamento scolastico.
Si sta facendo un’operazione doverosa e sufficiente. Doverosa perché, come dicevo, se in tempo di crisi bisogna trovare i soldi, farlo nel modo prospettato è la soluzione meno grave e più opportuna: si riduce la spesa accorpando – mettiamo il caso – due istituti, il risultato è la somma delle due scuole come alunni e come docenti; spariscono il segretario amministrativo e il preside di una delle due. Sufficiente, perché non si tocca la disciplina dei cicli; ma questo è un altro discorso.
È tanto che si parla di accorpamenti. Da questo punto di vista ci sono due Italie, non trova?
Certamente. Le Regioni centro settentrionali, cioè le migliori, hanno già provveduto; e infatti, se guardiamo i dati, la riduzione che si prevede in quelle Regioni è bassa. Non così le Regioni del sud, che non hanno fatto nulla o quasi. Pressioni politiche, raccomandazioni e clientelismo hanno bloccato tutto.
Ma secondo lei il sud sarà in grado di fare gli accorpamenti o no?
Non lo so: il desiderio è sicuramente di non farli. Per qesto servono misure efficaci di subentro e supplenza in caso di amministrazioni inadempienti. Se queste misure sono giuridicamente ben fatte, funzionano.
Lei è il padre putativo di questa riforma?
Noi abbiamo fatto un’altra cosa: abbiamo dato alle Regioni il potere di delegare alle province la programmazione delle nuove sedi e l’assestamento delle sedi esistenti. Da qui è derivato il riassetto di istituti che allora erano su scala ancor più piccola. Ora la situazione economico finanziaria del paese è diversa e più grave.
Un suggerimento?
Fare gli istituti comprensivi. Chi ha dato una grande spinta agli istituti comprensivi è proprio il sottoscritto. Ottenemmo una riduzione di metà delle elementari e medie esistenti. Ma il punto è un altro: quell’operazione era in perfetta sintonia con la riforma dei cicli, che prevedeva che il primo ciclo comprendesse elementari e medie in un unico istituto e in un unico ciclo.
Sappiamo com’è andata a finire.
È andata a finire che la Moratti ha cancellato tutto con un tratto di penna, facendo perdere all’Italia 15 anni di storia, mentre tutti gli altri Paesi, chi prima chi dopo, si sono mossi nella stessa direzione. Avremmo tra l’altro ridotto di un anno il corso di studi, il che, da un punto di vista tremontiano, avrebbe consentito un risparmio enorme. Non è ironico che proprio Tremonti, conservando d’accordo con la Moratti la vecchia legislazione e a abolendo la riforma dei cicli, abbia aumentato la spesa? È la conferma di quello che già sappiamo: che per l’economia italiana Tremonti sarà ricordato come un disastro. Lo scriva questo, per favore.
Senz’altro. Ma anche ora si tagliano i costi, o no?
Sì, ma in modo completamente diverso. Noi pensammo la riforma con un obiettivo educativo e non di mera riduzione dei costi. Si facevano uscire i ragazzi da scuola a 18 anni invece che a 19, ma soprattutto si governava la transizione dall’infanzia alla preadolescenza in una forma morbida di sviluppo educativo; invece oggi c’è il salto, e non a caso i primi elementi di dispersione scolastica si manifestano proprio in prima media.
Poi però non si fece nulla.
Diciamo che arrivò Berlusconi e la gelata bruciò gli ulivi. Un’alleanza della destra con una parte dei sindacati per difendere un anno delle elementari, perché in realtà di questo di trattava, fece saltare una riforma già pronta in Gazzetta Ufficiale.
Cosa la preoccupa in «tempo di guerra»?
Che istituti troppo numerosi tolgano al dirigente scolastico ogni residuo di funzione educativa, a vantaggio di un ruolo meramente burocratico. Ma una cosa è certa: restare alle cifre attuali non è più possibile.
(Federico Ferraù)