È facile tagliare. Il difficile è, come si suol dire, “razionalizzare la spesa” pensando alle vie d’uscita, cioè alla mitizzata “crescita”. E non c’è crescita, nel mondo globalizzato, senza un occhio di riguardo a ciò che può dare “valore aggiunto”. L’eccellenza infatti non si crea con un battito d’ali. Non si crea per decreto, come per decreto non si creano posti di lavoro.
Se, poi, è evidente che è solo con l’innovazione e la cura della creatività che si possono cambiare le condizioni di una crisi che, tra di noi, sta assumendo contorni depressivi, resta la domande chiave: quali iniziative assumere per la svolta, per ridare cioè fiducia e speranza in particolare alle giovani generazioni. Le più penalizzate.
Avendo di recente partecipato ad un dibattito sul concetto di “servizio pubblico” in Veneto, ho visto che sono (non solo) tra i veneti ben presenti alcuni pregiudizi, in realtà mancate informazioni.
Di contro all’opinione dominante, non è corretto, in poche parole, credere che basti tagliare un po’ di pubblica amministrazione, compresi trasferimenti al mondo della scuola, dell’università e della ricerca, se non ci si ferma ad analizzare i profili di qualità dei diversi “servizi pubblici”. Troppo facile, troppo comodo.
Mentre la questione vera, al di là della giusta (finalmente) comparazione tra lavoro pubblico e lavoro privato, resta un’etica della responsabilità che sappia guidare, non solo all’inizio ma, più ancora, durante la carriera, la scelta e selezione dei docenti (università e scuola). Il che non esclude, anzi, che non vi siano persone in gamba a scuola e nelle aule universitarie. Mentre, invece, continua anche in Veneto a dominare una sorta di accordo sottobanco tra istituzioni e rappresentanze sindacali, quello che sino ad ora ha impedito la valutazione in itinere del “servizio pubblico”, creando malumore nei confronti dei privilegi degli statali. Con giudizi ingiusti per i tanti che fanno bene il proprio lavoro. Garanzia, dunque, sino ad ora del posto di lavoro, in cambio di stipendi mediocri e bassa produttività.
Se, cioè, sino ad oggi si è privilegiata la sola selezione in ingresso degli statali, con code lunghissime ai concorsi, quando mai, in concreto, si è proceduto alla valutazione qualitativa in itinere? Con profili di rendicontazione sociale del proprio operato. Si è privilegiato, cioè, il diritto non al lavoro, ma al posto di lavoro.
Avendo seguito, ad esempio, da due decenni i tentativi di riforma del reclutamento universitario e dei docenti di scuola, ho maturato la convinzione che, non solo in Veneto, siamo ancora al di là di un vero percorso riformatore, secondo merito. Quel percorso che dovrebbe portare i giovani di talento a scegliere la docenza come prima opportunità di vita prima che di lavoro, senza dover andare all’estero o, al limite, essere costretti ad optare per opportunità minori e lontane dal proprio percorso di studio. Basta solo dare un’occhiata all’età media dei docenti, con l’assenza totale di giovani sotto i 30 anni.
Il nostro contesto, lo dobbiamo dire, è iper-conservatore, al di là di destra e sinistra. Chiuso a riccio su se stesso. Nelle scuole come nelle università. Soprattutto nelle università. Basti pensare alla prassi consolidata da sempre di privilegiare, da parte dei baroni universitari, più che i giovani di talento, le proprie cerchie di adepti, familismi più o meno mascherati, accordi incrociati.
È giusto protestare sui tagli, anche se, nonostante le recenti drastiche decisioni di Tremonti e di Monti, siamo passati in quattro anni dal 103% del rapporto debito-Pil di Padoa Schioppa all’attuale 123%. Conseguenza della crisi, è ovvio, ma, prima ancora, di una eredità tutta nostra che ha portato a scaricare sui nostri figli le nostre irresponsabilità.
È perciò giusto protestare, ma senza uno scatto in positivo si rischia solo di farsi del male. Perché i conti sono conti, e la realtà non si cambia con un tocco di bacchetta magica. Nemmeno con gli scioperi generali. Merito, innovazione, etica della responsabilità personale sono le parole chiave. Difficile limitarsi a piagnucolare.
Dal nostro “governo tecnico”, dedito perciò fondamentalmente al “principio di realtà”, a dire come stanno veramente le cose, mi aspettavo molto. Non per una subìta cultura tecnocratica, ma per, direi, buon senso: nei confronti di una realtà politica, come la nostra, in sempiterna campagna elettorale, vincolata per lo più alla sola logica dell’amico-nemico, una iniezione di sano “realismo”, pensavo, non poteva che far bene.
Invece, lasciando per il momento le questioni socio-economiche per concentrarci sul mondo della formazione e dell’innovazione, ho visto per lo più dei passi falsi, accanto alle logiche buone intenzioni: possibile, ho chiesto a più interlocutori, che un governo tecnico, che si è affidato ai super tecnici alla Bondi, in realtà alle mani dei tecnici ministeriali, non abbia compreso, vista la figuraccia sul Tfa, di dover mettere in cantiere, attraverso una “operazione verità”, delle strade alternative?
La crisi, ce ne dovremmo rendere conto tutti, sta imponendo a tutta la pubblica amministrazione un radicale ripensamento del ruolo, dei servizi e dei costi.
Ed una “operazione verità” dovrebbe dire una cosa, soprattutto: anche se, in prima battuta, sembra che non si discuta più della qualità dei “servizi pubblici”, ma solo dei loro costi, facendo di tutta un’erba un fascio, nella vita reale, invece, sappiamo che la domanda di qualità sta emergendo attraverso i valori della sobrietà, della responsabilità, anche del risparmio.
E così, spinti dalla continua emergenza, non so se ci stiamo rendendo conto che stiamo lasciando il terreno ad un ritorno, per sola via amministrativa, ad un nuovo “centralismo” ministeriale. Legati alla convinzione che solo il controllo assoluto del “Moloch” statalista possa preservare il nostro Paese da ben peggiori conseguenze.
La cultura che sta sotto a questi comportamenti è figlia dell’idea pessimistica sul valore della persona e delle sue responsabilità “pubbliche”. Lo Stato non si fida. Come se il grande debito pubblico fosse figlio di genitori ignoti.
Eppure, una alternativa c’è, ed è scritta anche nella nostra Costituzione, con la revisione, nel 2001, del Titolo V. Revisione, sino ad oggi, solo sulla carta.
A dire il vero, un accordo è stato sottoscritto, alcune settimane fa, dovuto agli sforzi della Conferenza Stato-Regioni. Mi limito qui al solo mondo della scuola. Sapendo bene cosa implica la sentenza n.13 della Corte Costituzionale del 2004. Questo ritorno del centralismo burocratico lo troviamo (art. 14, commi 17 ss.) anche nella “spending review”.
Intendiamoci: è bene che lo Stato detti le norme generali, i livelli essenziali ed i principi fondamentali, ma la gestione dovrebbe essere a carico della “responsabilità” sussidiaria. Ed è qui che si annida anche la risposta al caos programmato del Tfa.
Eccola, dunque, la parola chiave: sussidiarietà. Assente dai principi della nostra Carta costituzionale (per questo una sua riscrittura non dovrebbe essere uno scandalo per nessuno), sarebbe la chiave di volta della nostra post-modernità.