Con Il sergente nella neve Mario Rigoni Stern (Asiago 1921-2008) ci ha dato una delle rappresentazioni più intense della narrativa legata alle vicende della seconda guerra mondiale: la tragica ritirata dalla Russia del corpo di spedizione italiano rivive intatta in quelle pagine di sconvolgente semplicità a sessant’anni dalla sua pubblicazione nei “Gettoni” di Vittorini per Einaudi. L’autore desiderava “narrare solamente una condizione umana”; scrittura ed esperienza coincidono senza forzature per “dare la voce a chi non poteva più parlare”. Quello di Rigoni Stern è un “realismo integrale”, che “non conosce la distinzione tra interiorità ed esteriorità perché il visibile a tutti esiste, senza inganni o falsificazioni, quindi non va truccato”, ha scritto Eraldo Affinati.
Dopo la guerra Rigoni Stern ritornò nella nativa Asiago senza staccarsene più, se non per viaggi occasionali, rifiutando anche una prestigiosa offerta di una casa editrice di Milano. Lavorò come impiegato al Catasto della cittadina veneta fino al 1970, quando si dedicò completamente alla scrittura. Dopo Il sergente verranno altri libri, come Il bosco degli urogalli, Quota Albania, Ritorno sul Don, Storia di Tönle – che l’autore riteneva la sua opera più riuscita – Uomini, boschi e api, Amore di confine, fino all’ultimo Stagioni, che lo confermeranno tra i più grandi narratori italiani degli ultimi decenni. Una produzione ricca e densa di motivi che vale a smentire il frettoloso giudizio di Vittorini, per il quale Rigoni Stern non era “scrittore di vocazione”.
Affiancò ai racconti di guerra libri tratti da memorie ed episodi dell’amato altipiano, in cui emerge il suo grande amore per lo spettacolo della natura e della creazione: un mondo descritto senza alcuna concessione all’idillio, segnato da quel pudore virile che caratterizzò anche l’uomo Rigoni Stern. I ricordi per lui non sono occasione di ripiegamento nostalgico, ma diventano “preghiera di ringraziamento per la vita che hai avuto e per i doni che la natura ci elargisce”, come scrive in Stagioni. I due temi, quello dei ricordi di guerra e della rappresentazione della natura si fondono in modo magistrale in un tardo racconto dello scrittore, Sulle nevi di gennaio, pubblicato su La Stampa nel 1994 e poi compreso in Aspettando l’alba.
Il racconto inizia con il fotogramma di un giovane soldato ferito, il quale avanza faticosamente nella steppa russa, appoggiandosi ad una slitta. L’alpino che la conduce è costretto a rallentare, per cui si rivolge irosamente all’uomo, accorgendosi che si tratta di un tenente, ordinandogli di staccarsi dal mezzo; ma l’ufficiale, penosamente, lo avverte della sua condizione. Imprecando, il conducente gli fa un po’ di posto sulla slitta, dove il tenente trova finalmente la quiete.
Con un improvviso flashback, il racconto su sposta sulle nevi dell’Altipiano vicentino, dove sono in corso delle esercitazioni invernali, in cui sono impegnati degli allievi ufficiali. Il punto di vista diventa quello di un giovane, il quale, durante una discesa, si accorge di un’avvenente turista, caduta goffamente sulla pista, e si precipita giù “come un falchetto per aiutarla”. Ma è lui a doversi scusare, dato che lei, “indispettita e crucciata” per la caduta, riprende la discesa senza nemmeno ringraziarlo. Ancora un salto temporale e l’incontro si ripete in un rifugio, dove la ragazza, rabbonita, finalmente si scusa; è l’occasione per il giovane di invitarla a una serata di ballo, prima di lasciare l’altipiano l’indomani.
A sorpresa, la ragazza si presenta all’appuntamento: è una vera epifania. La guardiamo con gli occhi di lui: “Senza la tenuta da sci, ora, in quel vestito, appariva leggera, luminosa e sorridente”. L’atmosfera è gioiosa e brillante, ma il giovane desidera un’intimità più raccolta: perché non approfittare della notte “bella e serena” e lanciarsi con la slitta sulle nevi immacolate? Di nuovo, la ragazza è esitante, ma come rinunciare a una sera così bella? Eccola dunque ricomparire, rivestita per affrontare il rigore invernale, mentre sorride “imbarazzata e un poco anche confusa”. Un contadino, gentile, si offre come guida e fa schioccare la frusta: “…andava la slitta nella notte che rifletteva le stelle nei cristalli di neve, leggera scivolava come su una nuvola nel cielo”. Il cavallo, sempre più veloce, infila una strada che si inoltrava nel bosco, mentre la sorgente luna “illuminava gli alberi sul dosso della montagna e la luce si diffondeva tra i rami carichi di neve”.
Lo sguardo del narratore si sposta ancora sulle nevi della steppa russa, per seguire gli uomini silenziosi e curvi sotto la tormenta. Le slitte sono ferme nella neve, nell’alba livida i soldati procedono verso il lontano miraggio delle isbe, forse il riposato porto del loro andare.
Ma di nuovo il racconto ritorna sulle amate montagne dell’altipiano e siamo trasportati dalla slitta sui cristalli luminosi della neve, in compagnia dei due innamorati. Vinta da quella bellezza, la ragazza si abbandona. “Il corpo di lei si era abbandonato contro il suo, la testa nell’incavo della spalla, le braccia in un reciproco abbraccio. Il suo respiro era leggero e sembrava quasi il respiro di una piccola bambina”.
La storia, inesorabile, ci riporta ad altre nevi, ben più tragiche. Il conducente è arrivato nel centro del villaggio e lì fa fermare la slitta. Adesso può scostare il telo e scorgere il volto dell’ufficiale ferito; trapela da esso “serena felicità, sorrideva e gli occhi socchiusi avevano una luce sconosciuta”. Il conducente si avvicina e fissa quel volto.
Gli sembra allora di riconoscere “quell’allievo ufficiale che, in una notte di gennaio, con una bella ragazza, aveva portato con la sua slitta in una corsa per i prati e dentro il bosco. Lo prese sotto le braccia, lo trascinò dietro la casa, scavò nella neve, adagiò il corpo e con le mani ricoperse quel viso sorridente e quegli occhi felici”.
La mirabile semplicità di Rigoni Stern, in un racconto che sembra rievocare per alcuni temi e situazioni Sul ghiaccio di Hermann Hesse, grida, nel suo pathos accorato e trattenuto, l’invincibile protesta contro la stupidità e la violenza della guerra, la mite e ferma rivendicazione per le esigenze di felicità di ogni essere umano.