La condizione femminile nel cuore del Medioevo è il focus di un agile libro appena uscito per i tipi de Il Mulino (Maria Teresa Brolis, Storie di donne nel Medioevo, pp. 170), che si insinua prepotentemente tra i grandi testi che la medievistica contemporanea ha dedicato negli ultimi 50 anni al tema della femminilità.
Ormai da tempo la medievistica ha superato criticamente lo stereotipo del “maschilismo” medievale, dell’inferiorità antropologica e sociale delle donne (si spera che solo a livello delle semplificazioni giornalistiche sia rimasta l’idea del Medioevo che nega l’anima alle donne!), della sua riduzione a oggetto di ammirazione religiosa o di tentazione carnale (Né Eva né Maria, recitava efficacemente già nel 1981 il titolo dell’interessante libro di Michela Pereira).
Dal classico Donne nel Medioevo di Edith Ennen che riconosce alla donna dignità e funzioni ben precise presentando un variegato affresco del mondo muliebre medievale, al più recente Medioevo al femminile di un gruppo di autorevoli medievisti italiani, che presenta otto medaglioni di percorsi sociali “esemplari”, è maturata la consapevolezza del riconoscimento della dignità della donna e del suo ruolo non sempre subordinato.
Sul piano metodologico però, come nota Cardini nella sua accurata prefazione, “al fondo di questo ‘genere storiografico’ permane una sorta di ambiguità irrisolta. Siamo dinanzi a ‘casi’ nella scelta dei quali la fa da padrona l’occasionalità, oppure a ‘modelli’ che presuppongono una qualche serialità nelle tattiche e nelle strategie euristiche e metodologiche?”.
Il libro della Brolis vuole rispondere a questa decisiva domanda, anche se apparentemente descrive una serie di “casi”, con i profili di otto donne famose (da Ildegarda di Bingen a Chiara d’Assisi) nella prima parte e di otto donne comuni (dalla donna d’affari alla domestica, dalla guaritrice alla pellegrina, ecc.) nella seconda.
Le prime otto “miniature”, che vedono sfilare grandi protagoniste dei secoli decisivi della storia della cristianità occidentale (come nota Cardini “la vera, grande primavera d’Europa”), delineano le figure di Ildegarda, Raingarda (la madre di Pietro il Venerabile), Eloisa (l’amore di Abelardo), Eleonora d’Aquitania, Chiara d’Assisi, Brigida di Svezia, Cristina de Pizan e Giovanna d’Arco: non si tratta di ampie sintesi biografiche (nella ricca bibliografia finale sono indicati i testi biografici più utili ed aggiornati), ma di schizzi delle diverse personalità in cui vengono fatti emergere i tratti necessari ad illuminare il tema, ovvero a mostrare con che consapevolezza “la femminilità aveva un peculiare valore all’interno della visione cristiana del mondo medievale”.
Grazie a una rigorosa base documentaria (mai ostentata) la Brolis riesce con poche pennellate a mettere bene a fuoco i principali passaggi della vita delle protagoniste dal punto di vista della problematica femminile sia nei risvolti psicologici, sia nei riferimenti ideali in modo da far emergere con nettezza lo “specifico” carattere della donna presentata e della sua concezione di vita.
Così ad esempio quando presenta quel genio teologico-filosofico-artistico di Ildegarda di Bingen, per farci cogliere la sua posizione sulle differenti inclinazioni sessuali del maschio e della femmina cita questo passo del suo Causae et curae: “Quando una donna fa l’amore con un uomo, allora una sensazione di calore nel suo cervello, che reca piacere sessuale, comunica il gusto di tale piacere durante l’atto, e preannuncia l’emissione del seme dell’uomo. E dopo che il seme si è posato dove deve, quel fortissimo calore del cervello attira il seme a sé e lo trattiene, e presto gli organi sessuali della donna si contraggono, e tutte le parti pronte ad aprirsi durante il periodo mestruale ora si chiudono, proprio come un uomo forte può tenere qualcosa stretta in pugno”; per concludere: “Sono espressioni di una bellezza straordinaria anche perché dimostrano che una donna può vivere la verginità come un’esperienza che non censura nulla, anzi come un potenziamento dell’umano. Altro che sublimazione! Eppure qualcuno (moralista o scettico) potrebbe scandalizzarsi o non credere che una monaca possa immedesimarsi a tal punto in atti non vissuti in modo diretto. Ma Ildegarda studia la medicina e la fisica medievali e ne usa i linguaggi. Conosce a memoria la Bibbia le cui parole sono a tratti molto carnali…”.
La vera novità dell’opera sul piano storiografico è però data dalla seconda parte dove si succedono otto ritratti di donne comuni, la cui esistenza è illuminata solo da una documentazione particolare, quali testamenti, verbali di processi, attestati di partecipazione a confraternite, tutte “testimonianze documentarie che l’autrice esamina con cura, con vigile coscienza critica, talvolta con vero e proprio umanissimo affetto” (Cardini).
In questa seconda parte l’autrice mostra quanto sia fondamentale avere “un senso di simpatia verso l’oggetto di studio” (l’affettuosa simpateticità e concretezza dell’approccio ai temi e ai personaggi permette poi di rendere scorrevole e semplice il dettato narrativo, per cui si finisce per leggere il testo tutto d’un fiato) per essere un buono storico, ma soprattutto chiarisce il suo intento che è triplice, infatti lei stessa dice che questo accostamento tra donne famose e comuni è fatto “per un bisogno di conoscenza; per indagare la condizione femminile al centro e alla periferia del mondo medievale; per mettere insieme la grande storia con quella che non dovrebbe mai chiamarsi storia locale, nel senso angusto e restrittivo del termine”.
E’ da notare che le donne presentate in questa sezione son tutte dell’area bergamasca (l’ambito su cui principalmente vertono gli studi e le pubblicazioni dell’autrice) visto però non nei suoi aspetti localistici, ma come microcosmo rappresentativo del macrocosmo della vita comunitaria medievale.
Nella seconda parte i “bozzetti biografici” come propriamente van definiti questi ritratti di otto donne “normali” si allargano di volta in volta ad illustrare il tema precipuo del carattere o dell’attività documentata dei personaggi presentati: così i capitoli in questione sono dedicati di volta in volta a Flora e agli affari, a Agnesina e alla povertà, a Ottebona e al matrimonio, a Grazia e alla vita religiosa, a Gigliola e alla moda, a Bettina e al lavoro delle guaritrici, a Margherita e all’accoglienza ed infine a Belfiore e al mondo del pellegrinaggio, di modo che ogni capitolo si allarga da una ricostruzione biografica all’illustrazione del “vissuto” di un tema tipico del periodo, attraverso la presentazione di casi analoghi a quelli delle protagoniste.
Questi bozzetti affascinano, confermando che non esiste “grande storia e storia minore, esistono la buona storia, scritta al contatto diretto e costante con le fonti e alla luce del dibattito critico più qualificato, e la cattiva storia, quella di seconda e di terza mano, quella che confonde erudizione e informazione e che scambia l’intima, necessaria comprensione con l’abuso valutativo” (Cardini), perché attraverso la storia di “umili donne di provincia” che vivono la quotidianità “normale” di quei tempi si arriva a comprendere numerosi elementi tipici dell’esperienza vissuta e della mentalità collettiva del tempo medievale.
Esemplare in questo senso è il capitolo dedicato al testamento di Gigliola, che permette di fare un quadro della moda femminile del XIII secolo gustoso e ricco di sorprese (è allora che “si assiste a una vera e propria svolta nella mentalità collettiva nei confronti del blu che, in precedenza considerato una tinta “barbarica”, viene in seguito particolarmente amato anche perché in azzurro si dipingeva il manto della Vergine e azzurri erano quelli dei re, Il ‘nobile rosso’ invece risalirà nuovamente la classifica dei gusti nel XV secolo”) e dove si scopre che “Milano era già nel Trecento, con i Visconti, un centro di irradiazione di gusti e tendenze”!
Anche il quadro del matrimonio che emerge dal capitolo di Ottebona è esemplare sia sul piano metodologico sia sul piano dell’approfondimento del vissuto e della mentalità diffusa sul tema nel periodo.
Sul piano metodologico l’autrice riesce a mostrare come è dall’analisi di alcuni testamenti, “fonti spesso considerate minori, che possono emergere nuove prospettive sull’elemento sentimentale, affettivo, che il matrimonio poteva comportare, anche nel Medioevo”.
Cosa sappiamo veramente — si domanda infatti l’autrice — dei matrimoni contratti dalla gente comune nel Medioevo ?
A partire dalla piccola storia di Ottebona e altre la Brolis mostra che “l’amore poteva fiorire anche nel matrimonio medievale”, che non è riducibile a mero contratto, ma è spesso riconosciuto esistenzialmente come una istituzione sacramentale, ossia “un segno efficace della grazia” e che perciò esige un libero consenso e permette un ampio margine di autonomia economica-giuridica per la donna sposata.
Il vissuto di tanti matrimoni comuni è stato poi rafforzato — nota la Brolis — dal fatto che anche “una corrente teologica esaltò pure l’amore coniugale come forma di reciproco affetto, anche fisico, liberandolo da quei sospetti che le correnti moralistiche avevano sollevato sulla sessualità”.
E così si comprende che nel Medioevo non esistevano solo le due posizioni estreme: il disprezzo della sessualità dei chierici sessuofobi e l’esaltazione dell’amore libero dei goliardi edonisti. “C’è stata anche — nota l’autrice al termine del capitolo — la vita della gente comune: quelli che amavano la propria moglie o marito, o che avevano imparato ad amarli strada facendo, forse a prescindere da come il loro matrimonio fosse iniziato. Quelli che non avevano il tempo di leggere certi romanzi cavallereschi, in cui si idealizzava l’amore seguendo uno slancio sentimentale o un istinto estetico come in un sogno ideale e cortese”.
Ma la “grandezza” di questa parte del testo non è soltanto di permetterci un variegato affresco del mondo muliebre della “provincia” medievale, quanto quello di costituire la base documentaria per la scoperta di un “modello” di mentalità collettiva delle donne medievali finora poco considerato.
Brolis infatti mostra nel capitolo conclusivo che esiste un sottile “fil rouge” che unisce le miniature e i bozzetti da lei delineati: tutte le donne presentate mostrano infatti una visione di cristianesimo incarnazionista (o materialista), che ama la realtà creata come dono di Dio e che perciò ritiene un positivo la realtà corporea, la femminilità e la bellezza, andando contro il dualismo dei chierici moralisti che disprezzavano le donne e predicavano contro il corpo e la sessualità o il dualismo dell’eresia catara che in nome della separazione netta tra spirito e corporeità affermavano che un dio del male aveva creato tutta la materia.
Se il nucleo originario dell’avvenimento cristiano è l’Incarnazione, afferma la Brolis, allora si può arrivare a dire che “se Dio si è incarnato significa che la realtà (materiale e corporea) è ‘buona’, a partire dall’utero di quella donna che Gli ha fatto da madre”.
Certamente in questa realtà buona è presente anche il dramma del male, ma non in termini dualistici, per cui, osserva la Brolis, “la risposta migliore alla provocazione catara non fu ovviamente la persecuzione nefanda che martirizzò la dissidenza religiosa, ma l’esperienza spesso silenziosa e nascosta di chi rimase fedele al nucleo originale dell’annuncio cristiano, che rappresentò nella sostanza un elemento caratterizzante l’epoca medievale(corsivo nostro).
Questo accade sia in chi è consapevole della portata culturale dell’esperienza che vive (ecco l’altro fil rouge delle storie delle donne famose) sia in chi la “attua semplicemente nella pratica del vissuto quotidiano” (come è il caso delle “umili” donne dell’area bergamasca).
Le 16 donne esaminate appartengono in definitiva alla linea di quel vissuto dell’esperienza cristiana che è “storicamente ben individuabile anche nel Medioevo, ma fu nel complesso minoritario, almeno a livello di consapevolezza critica e di dichiarazione esplicita, fino a tempi a noi vicinissimi” (l’autrice qui si riferisce alle valutazioni positive espresse dalla profonda valorizzazione della visione cristiana dell’eros e della donna fatta dagli ultimi pontefici, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI a papa Francesco).
Il libro ci fa quindi scoprire come l’utilizzo sapiente anche di fonti documentarie considerate finora minori o specifiche, permetta di far riemergere i tratti una mentalità collettiva medievale che vive tutta la creazione, tra cui il corpo della donna e la sensibilità femminile, come un positivo da rispettare ed amare, oltre che capace di collaborare con dignità e creatività alla costruzione della cristianità del periodo.
In questa corrente di mentalità e di vita le donne — è la notazione di metodo conclusiva — soprattutto quelle comuni, giocarono un ruolo fondamentale, anche se spesso silenzioso, per cui “l’importanza del loro contributo fu troppo spesso misconosciuta o, ancor oggi, interpretata in modo controverso”.