Che bella la storia. Perché racconta chi siamo, da dove partire, sempre. Perché aiuta a vivere quel che ci accade, e a lavorare per il domani. E’ la prima frase che si dovrebbe dire ai ragazzi alle prese con i manuali, e pazienza se pare banale. Che bella la storia quando le immagini ci fanno rivivere il tempo, danno ai fatti lo spessore dei volti, dei sorrisi, delle rughe, del dolore. L’Istituto Luce è un patrimonio prezioso, che per la storia recente andrebbe proposto in tutte le scuole, ed è prezioso il suo impegno per suggerire a un pubblico più vasto che non siede più sui banchi pezzi di storia dimenticata.
Arriva nelle sale, e speriamo non di nicchia, un documentario presentato ieri all’Auditorium di Roma, davanti a una platea che spintonava all’ingresso. Curioso, si tratta della vicenda umana di un pugile, di tanti anni fa. Un pugile nero, ma italiano, di nome e di diritto, un campione di primo piano, cancellato dalla memoria collettiva per la cecità del fanatismo ideologico. Leone Jacovacci era un mito, nella Roma, nell’Italia che stentava a uscire col cuore rattrappito da una guerra devastante e si preparava con le fanfare a guerre future.
Figlio di un avventuriero e di una ragazza congolese capitata tra le avventure, Leone viene strappato alla madre e portato da piccino nella capitale, dove come tanti bambini all’epoca non se la passava così bene. Così, da adolescente, cerca la sua strada e tra un viaggio e l’altro oltre confine, impara su una nave britannica dove si arruola per tentare la sorte a tirare a pugni, e si fa notare, tanto da guadagnarsi ben presto borse copiose e pagine di giornali.
Il pugilato era come e più del calcio, per le passioni che sapeva animare. La forza, la statura e il coraggio si accordavano con i nascenti miti della gloria proposti al popolo, per supportare incerte e pericolose campagne politiche e militari. Leone vince sempre, e si fatica a mandar giù i suoi primati. Quella pelle scura, anche se parlava in romanesco stretto, non lo poteva disegnare come modello di sport e di eccellenza per l’Italia fascista. Leone vince sempre, ma le sue vittorie sono trascurate, o peggio negate, anche se si tratta del titolo di campione europeo. Non tutti avevano la spregiudicatezza di farsi fotografare in camicia nera, per ingraziarsi la propaganda di regime.
E Leone sparisce, dal ricordo, dai giornali, dai palmarès, e finisce lontano dalla città che l’aveva osannato per fare il portiere di notte, a Milano, sguardo fisso alla gloria meritata, che è rimasta una tacca nel cuore, nient’altro. Si deve a uno scrittore, Mauro Valeri, che qualche anno fa ne fece un libro, e a un intellettuale brillante, professore versatile di storia e filosofia, Tony Saccucci, aver riportato all’onore il suo volto, i suoi successi: ma “Il pugile del duce” è più di un atto riparatorio.
Il documentario con cui esordisce Saccucci rimonta le immagini seppiate conservate in teche polverose, cerca con cura certosina tra i titoli, le frasi delle riviste e ci ridona con un montaggio accorto l’emozione del ring, la commozione delle vittorie e delle sconfitte, soprattutto quelle umane. Sfoglia l’album fotografico di Leone, con le note appuntate coscienziosamente di ogni gara, di ogni trionfo, con i dagherrotipi di compagni di strada muscolosi, che posano con orgoglio per immortalarsi davanti a fanciulle adoranti.
E’ un altro mondo, dove il colore della pelle distingueva gli eroi, e prospettava il futuro. Non solo per il fascismo: ben prima di Mussolini le intemerate coloniali avevano fatto strame di popoli e culture ritenute inferiori, e parliamo delle liberalissime Francia e Inghilterra, solo per fermarci all’Europa. L’Italia, ultima e pasticciona, si è data da fare con scarsi risultati e inutili stragi, nonostante la retorica dell’Impero, che data da fine ottocento, e arriva fino allo sfacelo della guerra d’Etiopia. Oggi, è cambiato qualcosa? Molto, nella percezione comune, nella coscienza civile e politica di diritti che sono personali, non di razza o di condizione sociale. Ma ben poco è cambiato, nel considerare le chiusure, i sospetti, i muri che ancor più oggi sorgono davanti a ciò che appare sconosciuto e diverso. Sappiamo applaudire su un campo da calcio i campioni d’Africa, ma c’è sempre qualcuno che tira banane. Sappiamo idolatrare gli idoli della musica e della politica, ma respingiamo come intrusi i vicini di banco, di lavoro, di casa che arrivano da paesi lontani.
Questa dolorosa rabbia nel documentario si sente. Si sente nella scrittura di Tony Saccucci la passione civile, la ribellione, la volontà di fare della storia di un pugile che ci regala il passato un testimone, per i ragazzi di oggi, perché il loro sguardo ancora innocente sugli uomini non sia sporcato dal razzismo.