La vittoria di Lepanto del 7 ottobre 1571 impedì l’invasione dell’Italia nell’immediato e, come risultato di lungo periodo, provocò la fine della potenza navale ottomana nel Mediterraneo. Eppure, la componente militare terrestre turca continuò a essere temibile, nonostante la crisi politica del sultanato e il progressivo decadimento dell’impero ottomano. Il fatto è che le armate messe in campo dalla Sublime Porta erano ancora molto più numerose e meglio organizzate di quelle europee e, anche nel caso di sconfitte come quella della Raab del 1664, il potere economico e diplomatico turco era tale da imporre, ogni volta, le proprie condizioni di pace. Insomma, i turchi potevano perdere le battaglie ma non avevano mai perso una guerra. Nonostante la crisi cui si accennava, l’esercito ottomano non aveva cessato di espandersi verso la Polonia e la Russia. Nel gennaio del 1683 il vizir Kara Mustafà fece issare le code di cavallo poste davanti al Topkapi, il palazzo imperiale di Istanbul. I preparativi furono sbalorditivi, centocinquantamila uomini, compresi i non combattenti, poiché la grande armata truca era diretta verso Vienna e la vittoria era sicura. Nessuna forza al mondo poteva fermare una simile potenza: non certo una cristianità divisa e litigiosa, dove il cattolicissimo Luigi XIV di Francia era, di fatto, alleato del Turco. Bisognava mettere insieme troppi paesi diversi per cultura, religione e interessi politici.
Eppure chi riuscì in questa impresa titanica fu un padre cappuccino padre Marco d’Aviano che trattò con la Baviera e con la Polonia. Solo in questo modo si riuscì a radunare e far combattere insieme protestanti del Brandeburgo e della Sassonia con cattolici bavaresi, austriaci e polacchi: e tutto questo, va ricordato, a meno di mezzo secolo dalla fine della guerra dei Trent’anni.
Mentre Carlo di Lorena, comandante della cavalleria imperiale, riusciva a mantenere il controllo dei ponti sul Danubio, Vienna resisteva a un assedio tremendo, iniziato il 14 luglio e proseguito fra esplosioni di mine colossali e feroci corpo a corpo sulle brecce. Dei 16.000 difensori iniziali, dopo due mesi di assedio ne erano rimasti poco più di 6.000. L’11 settembre l’armata cristiana, che ammontava a 75.000 uomini raggiunse le pendici del Khalemberg e fu avvistata dalle mura di Vienna. Quella notte i difensori lanciarono razzi rossi per segnalare l’estrema necessità di un soccorso immediato: la città non poteva resistere più di altre trentasei ore. La mattina del 12 padre Marco celebrò la messa e poi iniziò la manovra d’attacco. L’esercito cristiano adottò una tattica articolata e letale, combinando le cariche di cavalleria degli ussari alati polacchi col fuoco disciplinato e ritmato delle fanterie asburgiche: la guerra dei Trent’anni era stata una severa maestra e aveva dato all’Occidente una supremazia militare che non sarebbe mai più venuta meno.
Dopo quella vittoria l’offensiva proseguì negli anni successivi fino alla vittoria di Zenta (11 settembre (!) 1697) e alla pace di Carlowitz del 1699. Solo in tempi recenti si è dubitato che la conquista di Vienna da parte ottomana non avrebbe avuto conseguenze rilevanti per la storia europea: un modo come un altro per cercare di cancellare dalla storia memorie esaltanti per alcuni, sgradevoli e imbarazzanti per altri.