Bisogna capire per decidere. E non si può capire la biopolitica se non partendo da una semplice osservazione: nella mentalità odierna esiste un’unica età della vita che merita la piena cittadinanza e viene chiamata “giovinezza”. Non quella che costruisce e genera, ma quella – estesa oltre i limiti della giovinezza anagrafica – che ha come unico elemento distintivo l’assenza di legami, l’autosufficienza. Tutto ciò che non vi rientra – bambini, vecchi e disabili – deve accontentarsi delle briciole. Le persone che appartengono a queste categorie vengono accettate solo se riescono ad assumere atteggiamenti da “giovane” (l’arzillo vecchietto, la bambina che si trucca e consuma pubblicità a dieci anni), altrimenti devono finire col sentirsi “estranei”, e senza mezzi termini, si trovano delle strade per aiutarli a trovare una “serena uscita”. È una società organizzata a misura di certi cittadini; gli altri si accontentino o escano.
Una volta capito questo il resto risulta molto più chiaro. Non bisogna trascurare un altro fattore: il diffuso sentimentalismo e la scarsità di riferimenti all’oggettiva letteratura scientifica. Se si partisse dai dati, ad esempio, il dibattito sulla marijuana sarebbe molto semplificato, l’American Academy of Pediatrics – che si oppone alla liberalizzazione su basi cliniche – indica i rischi che mostrano chiaramente quanto non abbia senso parlare di “droga leggera” (insorgenza di schizofrenia, incidenza su memoria, riflessi, anche dopo la sospensione dell’assunzione). L’uso dei dati scientifici e l’attenzione a non considerare “estraneo” nessun cittadino sono le basi di una corretta biopolitica; seguendole potremo far luce su vari temi di attualità. Ne prendiamo ad esempio due: le cure ai prematuri e la fecondazione in vitro.
Chissà perché si parla di “prematuri” solo sottolineando quali far vivere e quali morire e non si discute mai dei grandi progressi che la medicina ha fatto nell’ultimo decennio nella loro cura. Questa visione “necrologica” della neonatologia è stata recentemente stigmatizzata sulla prestigiosa rivista Acta Paediatrica, perché sottende l’idea che il bambino abbia “qualcosa” di meno dell’adulto, in una società fatta per soggetti sani e adulti. Nessuno esiterebbe ad intervenire qualora si trovasse in presenza di un autista ferito in un incidente stradale gravissimo, a rischio di morte o di disabilità: perché è diverso per il neonato?
1. Sopravvivenza e malattia – Sappiamo oggi che nascendo a 22 settimane dal concepimento, si ha una possibilità su dieci di farcela, mentre a 23 settimane le possibilità sono una su quattro. Non sono valori trascurabili. Certo, molti di questi bambini avranno problemi di salute di diverso tipo e gravità, ma al momento della nascita non possediamo strumenti per fare previsioni sul singolo bambino. I progressi nel campo neonatale hanno consentito traguardi prima impensabili: oggi sopravvive il 90% dei nati sotto il chilo di peso, contro il 10% di 40 anni fa. Recenti lavori mostrano che i centri che provano ad assistere tutti i nati dalle 22 settimane in su, non hanno un tasso di handicap maggiore di quelli che invece operano un’assistenza selettiva. Anzi, per un recente studio svedese, i centri “selettivi” invece di diminuire il tasso di handicap, lo hanno maggiore degli altri .
2. Rispettare i genitori – Sappiamo anche che la nascita prematura è un evento spesso improvviso e traumatizzante per i genitori; e che le cure devono essere intraprese immediatamente all’uscita dall’utero. Dunque non c’è tempo, purtroppo, per spiegare ai genitori le possibili patologie che potrebbero attendere il bambino, cosa che richiederebbe diverse ore e che verrà fatta in un momento successivo… e non si può, né si deve pretendere, una “decisione” sulla vita e la morte quando le informazioni non possono essere date o se vengono date di fretta e a persone sotto chiaro stress e dolore. Tuttavia i genitori devono costantemente essere tenuti informati di tutti i passaggi delle manovre mediche e delle risposte del piccolo paziente. D’altronde, non si capisce su cosa dovrebbero “decidere” i genitori o i medici, dato che la situazione, anche se drammatica è semplice: se c’è una chance, bisogna provare, se non c’è non si deve insistere. A meno che non si pensi che la disabilità futura sia un motivo per non rianimare. A parte il fatto che alla nascita non possiamo saperlo non avendo la sfera magica, questo non è moralmente accettabile. È importante semmai non insistere se gli interventi sono inutili.
3. Dignità della persona in fasce – Potremmo fare delle ipotesi sul perché il criterio su cui talora si impostano i trattamenti per i neonati differisca da quello per l’adulto. Forse per un’atavica presa di distanze che tendeva a non attaccarsi al piccolo in epoche in cui moltissimi rischiavano di morire; forse perché la debole voce dei piccoli necessita di forti avvocati. Forse perché siamo noi ad aver paura della vita disabile, tanto da pensare che la possibile disabilità (nostra, o dei nostri figli) sia un motivo non solo di fatica e dolore (ed è ovvio che lo è), ma anche di una vita con meno valore e questo tantissimi disabili ci mostrano come non sia vero. Sono delle ipotesi. Resta il fatto che i neonati devono avere diritto alle cure (e a sospenderle se le cure sono inutili) come i pazienti adulti. Sembra di dire un’ovvietà, ma invece è un terreno minato se si accetta che i genitori o i medici decidano magari indipendentemente dalle possibilità di sopravvivenza. Occorre ribadire che le cure che si praticano al neonato alla nascita non sono “sperimentali” (vengono praticate infatti da trent’anni); non sono “straordinarie” (si tratta in fondo di mettere un tubicino di due millimetri di diametro nella trachea per dare aria ai polmoni); non possono essere subordinate alla ipotetica disabilità (se fosse così, si giungerebbe a curare solo chi si prevede che ritornerà in piena salute). Diamo dunque a tutti una chance: è il compito del medico chiamato a far bene il proprio dovere.
Il concepimento è l’inizio della vita umana per la coscienza scientifica proprio perché è il momento in cui da due corredi cromosomici diversi se ne forma uno nuovo che non subirà più nessuna modifica, né alla nascita, né nella vecchiaia. È un essere umano. Al momento del concepimento viene determinato il nostro sesso, il colore dei nostri occhi, certe malattie di cui ci ammaleremo; nell’embrione di sette settimane si vede battere il cuore e sono presenti le ovaie. Non siamo di fronte a un “progetto”: a nessun progetto batte il cuore e nessun progetto se messo nelle condizioni giuste cresce e si sviluppa. Proprio perchè non è un progetto ma una persona deve essere trattato con rispetto. Non si può congelare a vita, mettere a rischio, gettare se non serve. D’altronde l’ambiente in cui avviene la fecondazione artificiale (FIV) riflette ma non sostituisce proprio tutte le particolarità di quello che è presente al momento in cui l’ovulo viene fecondato nella tuba uterina, e ancora necessita questo ambito di ricerca di evoluzione e progressi. Già questo dovrebbe dettare cautela per evitare possibili problemi al piccolo .
Un problema ulteriore è proposto dalla cosiddetta “diagnosi preimpiantatoria” (DPI), nella quale una o due cellule sono sottratte all’embrione quando è formato da otto cellule. La cellula prelevata viene analizzata per vedere se il suo DNA (e dunque presumibilmente quello delle restanti) ha anomalie: se le anomalie ricercate non ci sono, l’embrione verrà impiantato. Ebbene, spiega Lavery: «I genetisti hanno espresso preoccupazioni sulla robustezza e la validità di una diagnosi basata sull’analisi di una singola cellula; i perinatologi erano preoccupati dell’effetto della biopsia embrionaria sul normale sviluppo del feto” , e un recente studio mostrerebbe che in seguito alla DPI gli embrioni si impiantano peggio … mentre paradossalmente la DPI si fa, tra l’altro, sperando di selezionare gli embrioni che si impiantano meglio.
Anche in questo ambito le semplificazioni fatte dai media devono essere bilanciate dalla cautela e dalla corretta informazione che non vogliono impedire un diritto, ma ricordare la fragilità della vita al suo inizio e il rispetto che è dovuto alla persona piccolissima che viene concepita e alla sua mamma che l’attende.
Come si vede dagli esempi fatti finora, i dibattiti troppo spesso tengono in conto i diritti dei “grandi” (o dei “giovani”, come li abbiamo descritti all’inizio) e quasi mai di quelli dei “piccoli”. E tra i piccoli includiamo i ragazzi a contatto con la droga (su cui i media sono pieni di spot pro-liberalizzazione, e di sottovalutazione degli effetti), le donne che abortiscono (cui non vengono prospettate alternative e cui non si dà un servizio di appoggio per le sequele psicologiche), i vecchi (cui viene offerta l’eutanasia, verso la quale si orienteranno più per non sentirsi di peso che per reale dolore).
Una politica seria e solidale non può invece non partire da questi ultimi. È atroce pensare che le politiche quando toccano i temi dei “piccoli” si attestino principalmente sul decidere chi merita di vivere e chi invece ha interesse a morire. Raramente abbiamo sentito parlare di politiche culturali per i disabili (i ragazzi si trovano in classe con un malato, ma sono davvero poco aiutati a capire come questo sia una risorsa anche per loro); poco si è parlato di potenziare le cure palliative e gli hospital (se non quando spuntano di soppiatto nei dibattiti sull’eutanasia); pochissimo si parla di bambini (se non come consumatori televisivi o oggetto di violenze).
Oggi che sappiamo come l’ambiente influisca già sullo sviluppo dell’embrione, del feto, del neonato (in una parola, del bambino), non possiamo non esigere una politica dell’ambiente che rispetti l’ecologia biologica degli uomini e delle donne prima ancora del concepimento, ma a maggior ragione da quando il nuovo figlio è stato concepito. Occorre tutelare la lavoratrice madre, ma anche il lavoratore da tutti i possibili inquinanti che ne mettono a rischio la salute riproduttiva; occorre informare le coppie verso i rischi di una gravidanza intrapresa in età sempre più avanzata e generare politiche che facilitino matrimoni e riproduzione in epoche fisiologiche e non tardive.
Riprendiamo a mettere i piccoli al centro della politica: ne vedremo delle belle per tutti, perché o tutti siamo una risorsa o tutti siamo da buttare.