La scorsa settimana è girata la notizia che il re (e autorità religiosa) di Benin City, in Nigeria, ha pronunciato un editto con cui annulla ogni giuramento, fatto con riti woodoo, che tiene schiave della prostituzione migliaia di ragazze e alimenta la loro tratta nel nostro Paese e in tutta Europa.
In tante hanno cominciato a scappare, a rivolgersi a centri di accoglienza o alle autorità, sentendosi finalmente libere da una sudditanza psicologica, alla fine, più potente della coercizione fisica.
E’ un fatto epocale, uno di quelli che sembrano accelerare bruscamente il corso della storia, rendendo in un attimo impotente la leva che riduce in schiavitù delle ragazzine, tra l’altro, sempre più giovani.
La violenza di esseri umani su altri esseri umani è vecchia come il mondo, non solo dove è unita alla potenza di riti e costumi ancestrali. Però fa pensare l’uso della dimensione religiosa, apice dell’umano, e quindi del suo bisogno di senso e di liberazione, come strumento di ricatto e di abuso. Tentazione che fa parte di un utilizzo deviato di ogni credo. Anche di quello cristiano.
Con tutte le differenze del caso, viene da pensare a quanto uso della religione si è fatto, anche da noi, giocando più sulla paura che sulla gioia di un Dio che si è rivelato come amore. Un Dio più disposto a puntare il dito contro i difetti e i limiti (peraltro previsti da lui se è vero che ci ha creati), piuttosto che sostenerci nel nostro zoppicante procedere. Insomma, un Dio di cui alla fine si spera di poter fare a meno.
Quanta prevaricazione tende ad affermarsi in ambiti in cui l’esigenza di radicarsi in convinzioni forti domina su quella di imparare e cambiare sempre, seguendo il divenire della vita? Non penso solo a errori macroscopici come quelli che, forse un po’ ingenuamente, si facevano in passato (quando ad esempio c’erano confessori che cercavano di convincere le donne che erano obbligate a soddisfare sempre e comunque gli appetiti sessuali dei mariti, oppure che non davano l’assoluzione se il partito votato non era quello gradito).
Certo, anche dottrine che hanno al centro il rispetto per la persona sono portate avanti da esseri umani che sbagliano. E se ridurre in schiavitù un essere umano è un caso limite (per quanto nel mondo del lavoro ci stiamo pericolosamente ri-avvicinando), non lo è poi tanto chi è mosso dall’ansia di dominare e diffida che si ragioni con la propria testa e si giunga a conclusioni diverse dalle sue.
Ricordo ancora una lezione di catechismo sull’obbedienza in cui provai a dire che, pur riconoscendo l’importanza di essere aperti anche ad assumere ipotesi altrui da verificare, alla fine, con la propria personale coscienza non si può veramente scendere a patti, e comunque è necessario almeno capire ciò che viene proposto. La risposta del prete fu: no, così segui te stessa!
Quanto “oppio dei popoli” abbiamo visto in tanti ambiti religiosi? Anche semplicemente per il fatto che si preferisce rovesciare sugli altri l’onere dei propri passi e delle proprie scelte.
Oppure perché un percorso di vita e di fede viene visto “o dentro o fuori” e non per quello che necessariamente è: sempre e comunque “in progress”. O, ancora, quando si è più preoccupati di perseguire un pensiero unico, di confermare un discorso comune (meglio se con gli stessi criteri e con le stesse parole d’ordine) o quando ci si misura su passi prestabiliti, allergici alla contraddizione, in una sorta di appiattimento sterile che rinuncia ad offrire agli altri semplicemente i pezzi contingenti del proprio soggettivo procedere.
E non è “oppio” anche quel modo di pensare che misura la fede dal livello di “pace dei sensi” che riesce ad esprimere? Oppure, ancora, quella che vede la sofferenza, la prova, la crisi come una sorta di tentativo sadico di Dio di imporsi ai nostri occhi, e non come parti di un percorso il cui scopo è farci crescere, diventare noi stessi, cammino in cui Cristo si fa compagno. Come se le ferite che ci portiamo addosso fossero un pretesto per poi godere della presenza di Cristo, e non quello che ci spinge a camminare, conoscere, capire, cambiare, crescere, sostenuti da Cristo.
Insomma, un approccio meccanico al rapporto con il Mistero, che spegne il dramma, immiserisce il valore del cammino umano come crescita, come costruzione, come creatività, come ricerca.
Si può obiettare che il problema principale nel nostro Paese è la crescita dell’ateismo, non l’uso distorto della religione, se è vero, come rivela una recente indagine (Franco Garelli, Piccoli atei crescono, Il Mulino) che i giovani tra i 18 e i 29 anni che dichiarano di essere senza alcuna appartenenza religiosa sono aumentati del 40% negli ultimi otto anni (dal 12,9 al 18,5%) e che sommati a coloro che esprimono atteggiamenti di ateismo pratico, portano la percentuale al 40% del totale.
Eppure, non solo il tema di cosa sia un’educazione religiosa davvero utile alla crescita delle persone rimane, ma prende ancora più consistenza, considerando che secondo la stessa indagine, la grande maggioranza dei giovani italiani (67%) ritiene che “credere in Dio” e “avere una fede religiosa” siano atteggiamenti “plausibili” anche nella società contemporanea, sottolineando che il bisogno religioso fa parte degli esseri umani in quanto tali, “prendendo quindi le distanze dalle idee che esso sia un prodotto della religione stessa o soltanto il frutto della disposizione di alcuni individui che cercano di compensare a questo livello carenze psicologiche e sociali”.
Insomma, ha ragione chi dice che questo tempo “secolarizzato” contiene una grande opportunità. E per quanto religioni laiche si siano di fatto sostituite a religioni trascendenti tradizionali, ciò che conta è che i giovani appaiono non più refrattari come i loro genitori a un rapporto con il soprannaturale.
Come sottolinea ancora la ricerca citata, per i giovani italiani, “credere in Dio o avere una fede religiosa è dunque ammissibile sia perché è il frutto di un’opzione di vita o di un sentire che qualifica le persone, sia perché esprime il dinamismo di quello spazio privato che permette a un individuo di costruirsi una propria biografia e farsi soggetto della propria vita”.
Quello che forse hanno già intuito è che la fede è un dono, non un dovere. Un dono che però va coltivato. E per questo servono più che mai ambiti che non propongano appiattimento, quando i giovani sono di per sé in fermento; conferme, quando hanno bisogno di ricercare; asserzioni quando è bene che siano problematici; compiacenza, quando preferiscono la distanza dell’essere presi sul serio; accordo, quando vogliono distinguo; astrazioni quando voglio concretezza; generalizzazione quando chiedono specificazioni e dettagli; calore materno quando devono prendere le distanze per costruire la loro strada, anche rimanendo al freddo; tranquillità, quando sono mossi dall’inquietudine. Non vogliono essere intruppati e placati, ma hanno bisogno di qualcuno con cui condividere un progetto di crescita, di fede, di vita, di conoscenza, da qualunque parte questo conduca.