Dopo aver indicato il metodo della scoperta, scientifica e non, riferiamo ora i problematici risultati della discussione di San Marino (“Discovery as an event” organizzato da Euresis e dalla Fondazione Templeton) per quanto riguarda l’oggetto della scoperta. Che cos’è che si scopre? Scoprire la radiazione cosmica di fondo non è identico a identificare il colpevole in un caso di omicidio senza indizi chiari (cfr. Gli assassinii della Rue Morgue di E.A. Poe; per chi non l’avesse mai letto un imperdibile gioco di logica e sangue), inventare il laser non è la stessa cosa che scovare mammut e ominidi. Tuttavia, anche in questo caso, ciò che unisce è più forte di quanto non sembri. Gli intervenuti alla discussione di San Marino concordano nel dire che ciò che si scopre è sempre qualcosa che appartiene alla realtà.
Bella scoperta, si dirà. Eppure gran parte della cultura/filosofia (inclusa quella della scienza) lo hanno spesso negato. Qualcosa c’è ed è ciò su cui verte il nostro ragionamento, anche quello che compie delle scoperte. Ecco la famosa distinzione tra ontologia ed epistemologia. L’ontologia si occupa di “che cosa c’è”, l’epistemologia di “che cosa e come conosciamo”. Le due cose sono legate? Posto che quando si scopre si ha a che fare con qualcosa che c’è, cerchiamo ora di capire qual è questo tipo di legame.
La storia della filosofia ha presentato diverse versioni di questo rapporto. La più estrema per un verso è quella che dice che quando conosciamo qualcosa di vero e di nuovo siamo in preda a un’intuizione, nel senso che è Dio (o chi per lui: la mente, il cogito ecc.) che parla in noi rivelandoci la realtà che sta “là fuori”. È quello che Platone sosteneva nello Ione a proposito della poesia e che Frege in fondo ribadiva (senza menzionare Dio, ovviamente) a proposito del regno a cui fa riferimento il pensiero.
All’estremo opposto la versione già menzionata per cui non c’è nessuna realtà ma solo interpretazione. Gli esiti più radicali della filosofia della scienza (Feyerabend) e della filosofia contemporanea in generale (Rorty) propongono proprio questa visione. Macché realtà “là fuori”, è un gioco di convinzioni personali, feeling, idiosincrasie, che hanno più o meno successo a seconda dell’epoca, del tipo di potere e del confronto comparativo tra moduli alternativi.
La discussione di San Marino scarta entrambi questi esiti, il realismo ingenuo e il nichilismo ermeneutico: ontologia ed epistemologia sono collegate fra loro; quando Keplero scoprì le celebri leggi delle orbite dei pianeti non stava parlando solo di convinzioni personali. Tuttavia, non si vuole dire con ciò che le leggi dell’universo siano ontologicamente necessarie nel senso del sostenere che Dio (o la realtà medesima) pensi con le nostre formule e categorie. Qual è allora questo legame? Qui le idee dei convegnisti divergono. Gingerich pensa che si tratti di “persuasioni”: a differenza di ciò che sosteneva, Galileo non aveva “prove” per dire che aveva ragione, ma poteva mostrare una migliore immagine del mondo che nel suo complesso doveva essere più persuasiva. Polkinghorne parla invece di “credenze motivate” che ci spingono a preferire un’ipotesi all’altra; anche in questo caso il ragionamento non è una catena necessaria ma una fune le cui ragioni si legano le une alle altre. Sulla scorta degli studi semiotici, io preferisco parlare di “segni iconici e indicali”, cioè dei segni non verbali (le icone sono rappresentazioni per similarità e gli indici sono rappresentazioni per contiguità) che giudichiamo secondo criteri estetici ed etici. Ovviamente ci sono molte altre visioni intermedie, e penso che su questo punto la discussione sia aperta e avvincente per tutti coloro che amano la conoscenza. Del resto, i convegni riusciti servono a mettere in luce i problemi e a far intravedere una strada: la via indicata a San Marino è quella dell’unità del sapere e della continuità tra epistemologia e ontologia, tra fisica e metafisica.
(Giovanni Maddalena)