Ci sono occasioni in cui la sorte fa incontrare persone capaci di unire studio e vita, profondità e semplicità, con la massima naturalezza. Giorgio Bruno, insegnante di storia e filosofia in un liceo classico di Torino, è una di queste figure e dialogare con lui intorno a Charles Péguy e al suo Zangwill, da lui ritradotto recentemente dopo decenni di oblio editoriale (Charles Péguy, Zangwill, Marietti, Milano 2015), lo mostra con evidenza. Perché quella che dovrebbe essere un’intervista sul lavoro svolto diventa, grazie alla sua chiarezza e al suo desiderio di confronto, un dialogo a tutto campo su quelli che sono i temi portanti dell’opera: la scientizzazione della storia e l’illusione di dominare ed esaurire il sapere; il rapporto tra libertà e conoscenza; quello tra soggettività e oggettività, tra possibile e probabile.
Michelet, che tu citi nell’introduzione, afferma che “la storia è una Resurrezione”, intendendo la possibilità di “vivere e far vivere”. Uno studioso ingiustamente misconosciuto come Rodolfo Quadrelli, dal suo canto, individua uno dei mali del pensiero moderno nell’identificazione tra possibile e probabile, nell’intendere cioè come possibile soltanto ciò che è predeterminabile deduttivamente dall’analisi dei fatti noti. Come se si opponessero da un lato uno sguardo sintetico all’oggetto, quindi la libertà come parte fondamentale dello stesso processo di acquisizione e lettura del dato e la possibilità come esito storico; e dall’altro l’analisi, o quella che Péguy chiama “l’indefinitezza del dettaglio”, la meccanicità e la probabilità. È questo il punto di fuoco del saggio?
Sì, credo che sia proprio il punto-chiave: il “tutto può succedere” in alternativa a una catalogazione analitico-sommaria. Péguy con questo saggio intende denunciare un progetto culturale ben definito, che lui fa risalire a Taine e Renan, ma che storicamente lo porterà a battagliare soprattutto con i loro discepoli. Un progetto che acquisisce i metodi scientifici e positivisti e che li trasferisce nell’ambito della storia, più propriamente della storiografia. Direi quindi che sì, possiamo riassumere la polemica di Péguy nell’opposizione tra il “tutto può succedere” e una visione meccanica, e perciò analitica, sistematica e onnicomprensiva. È interessante perché è sempre attuale, in fondo noi abbiamo sempre la presunzione che la conoscenza possa divorare tutto: è una tentazione che l’uomo ha in tutte le stagioni, dalla gnosi a un film di cassetta come Lucy di Luc Besson uscito l’anno scorso.
Ma questa difesa dell’inesauribilità dell’oggetto, in fondo, non è una difesa della presenza del soggetto? Mi spiego: se fosse realmente possibile studiare un fenomeno fino al punto di dire “ora ne sappiamo tutto”, io che arrivo un istante dopo questa certificazione di onniscienza, non è come se non esistessi? Perché se invece io esisto — e sono un qui e ora in divenire — allora nel momento stesso in cui io mi metto a studiare questo fenomeno presuntamente conosciuto, sto già facendo una cosa nuova, un atto nuovo, una storia nuova…
Certo! È proprio quello che dice Péguy. Non è che lui ritenga che tecnicamente si possa fare… A lui spiace e denuncia che ci si comporti come se fosse possibile! Però, sia come oggetto che come metodo, la realtà ci supera sempre. Come oggetto, perché comunque anche quelli che ne affermavano la possibilità, mai avrebbero saputo immaginare la varietà e quantità di modi con cui la realtà li superasse: gli eventi superano sempre, l’oggetto della storia, per quanto tu possa dire tutto, ti supera da ogni parte… E poi c’è l’altro aspetto cui accennavi: che sì, è un atto nuovo. Presumiamo — è impossibile, ma diamolo un istante per possibile — che io abbia una biblioteca che esaurisce tutto un dato argomento: nel momento in cui io metta a leggerla, sto già facendo un atto nuovo, creativo. Péguy dice infatti che i suoi stessi avversari, nel momento in cui prendono la penna e si mettono a scrivere, sono contraddittori con ciò che affermano.
Una simile contraddizione sembra possibile solo trascurando la presenza dell’Essere come dato di fatto. Ed è interessante, pensando ai giorni nostri, come Péguy rilevi da un lato l’imbarazzo di Dio che l’uomo moderno vive e dall’altro una presunzione prometeica che dal singolo uomo sembra spostarsi nel metodo…
Sì, adesso che la storia è diventata più “scientifica”, questi storici dovrebbero essere più umili… La questione è che la presunzione si è spostata nel metodo perché dalla ricerca quotidiana si è spostata alla prospettiva di fondo. Nella ricerca quotidiana sei molto umile: impari, sbagli… Ma il metodo in sé è un metodo che porta la presunzione di essere più grandi di Dio. È come se ogni giorno tu accettassi di sbagliare, cadere, ripartire, di essere fallibile, ma con l’idea di fondo che zitto zitto, giorno dopo giorno… Ma forse questa ce l’abbiamo tutti, perché davvero siamo moderni: la tentazione di porre nel metodo l’antico orgoglio prometeico.
In questa descrizione mi sembra emerga l’illusione, o meglio il mito, di una oggettività senza libertà, cioè dell’esistenza di verità che non richiedano all’uomo di essere riconosciute per essere praticabili. Io credo che valga persino per le così dette scienze dure… Un atomo è un atomo, il microscopio ti aiuta a vederlo, ma non esiste nessun atomo che ti “sbatta in faccia” il suo essere atomo se tu non sei disponibile ad accettarlo.
Sì, io credo che ogni dominio implichi che la realtà sia un’interrogazione, una provocazione alla nostra libertà. Nell’atomo e a maggior ragione nella storia di un uomo o di un popolo.
Quindi senza libertà non c’è vero accesso alla conoscenza? Cioè, non si tratta di “che cosa fare” con la conoscenza, ma della stessa possibilità di accedervi?
Certo. La realtà interroga la libertà. Se non c’è questa libertà, non c’è vera conoscenza. La stessa esperienza ce lo dice: infatti Péguy non dimostra, dice “solo” che gli stessi positivisti non possono che comportarsi così. Quando nelle pagine finali dice che “siamo davanti a uno spettacolo immenso, di cui non conosciamo che effimeri incidenti” è proprio una provocazione a lavorare liberamente e seriamente, un invito a continuare a metterci in gioco, a riconoscere che non è mai finita.