Mi piace spesso ricordare che nel corso di un evento al quale partecipavo, ebbi modo di discutere di mobilità con un paladino del “green tout court” che mi disse: “Le automobili andrebbero eliminate dalla faccia della terra. Inquinano, intasano le strade, sono pericolose per i bambini”. Mi limitai a ribattere che mi sembrava una posizione radicale che non teneva conto di tanti aspetti. “Mi dovrebbe dire, ad esempio, cosa facciamo fare – replicai – a tutte le persone che ci lavorano oggi?”. “Non lo so, ma qualcosa si troverà” fa la laconica risposta. Ma il meglio doveva ancora venire. “Io – mi disse – vivo da tempo fuori città, nel verde e mi muovo solo in bicicletta come dovrebbero fare tutte le persone responsabili”.
“Anche a me piace andare in bicicletta – dissi – ma dovrebbe spiegarmi come fa la mattina a portare i bambini a scuola, poi andare al lavoro e quando torna fare la spesa”. Fui fulminato dalla risposta: “Onestamente non mi riguarda. Sono tutte cose di cui si occupa la servitù!”. Ho spesso la sensazione che questo sia lo stesso approccio di chi dovrebbe prendere decisioni importanti per far ripartire un settore che offre 12 milioni di posti di lavoro che rappresentano il 10,2% degli impiegati manifatturieri in Europa, ha 177 stabilimenti dislocati in 16 Paesi EU, un valore dell’export di 75 miliardi di euro all’anno, un fatturato nei 12 mesi di 500 miliardi di euro, un investimento in ricerca e sviluppo del 5% all’anno pari a circa 26 miliardi di euro, 8.568 brevetti nel 2011 per nuove invenzioni. Il settore automobilistico rappresenta una ricchezza straordinaria per il Vecchio Continente. Ma normalmente sale agli albori della cronaca soltanto in due momenti: quando fa registrare un calo considerevole del mercato o quando (soprattutto nel nostro Paese) si parla di inquinamento. Questo avviene puntualmente ogni anno in Italia in autunno, quando, in coincidenza (che strano!) con l’avvio degli impianti di riscaldamento negli edifici pubblici, nelle industrie e negli appartamenti dei privati, improvvisamente si scopre che le auto sono brutte, sporche e nocive. Ovviamente si tratta di giudizi frettolosi e troppo semplicistici che non tengono conto in modo adeguato di tutte le componenti che vanno ad influire sull’inquinamento (che per altro ha varie componenti: CO2, polveri sottili, particolato, etc). Spesso poi a queste considerazioni frettolose si aggiungono ricordi idilliaci degli anni passati che vengono dipinti come un’età dell’oro dove tutto era leggero, pulito e migliore.
A smentire queste favole, basterebbe ricordare che per raggiungere il livello di inquinamento prodotto da un’automobile degli anni Settanta, ce ne vogliono ben cento di oggi. Nello stesso arco di tempo la rumorosità delle vetture è stata ridotta del 90% e i danni ai passeggeri (grazie a tutti i dispositivi di sicurezza attiva e passiva) sono calati dell’80%.
Forse la memoria fa difetto a questi nostalgici della loro giovinezza! Certo nel frattempo il mercato è cresciuto e le auto in circolazione sono aumentate. Nel 2011 in Europa si sono prodotte 17 milioni di automobili, il 24% dell’intera produzione mondiale. Ma tutto questo ha avuto risvolti economici e sociali che non hanno eguali in altri settori merceologici. Se solo riflettessimo su quale è stato il ruolo decisivo svolto dall’avvento dell’auto di massa sia in termini di crescita della libertà individuale che in tema di emancipazione della donna, credo che potremmo riempire pagine e pagine. Quale altro mezzo di trasporto, infatti, offre le stesse possibilità, anche in termini democratici, di inseguire un sogno, un’idea o semplicemente una voglia momentanea a costi, ancora oggi (nonostante il costante aumento del prezzo della benzina), abbordabili?
E ancora. Che peso hanno avuto le “quattroruote” nel consentire alle donne di uscire di casa in tutti i sensi, contribuendo alla gestione della difficile alchimia carriera/famiglia/tempo libero che in precedenza era impossibile? Mi sembra di poter dire che troppo spesso negli ultimi anni, in Europa, si è guardato all’industria automobilistica come a un gigante da tenere a bada e da limitare, invece che a una grande ricchezza sulla quale investire. In questo settore le Case Europee hanno dimostrato di avere competenze, creatività e idee che le hanno consentito di arrivare a posizioni di leadership tanto negli Stati Uniti che in Oriente. Oggi tutto il focus è posto sulla riduzione della CO2 (giusta e sacrosanta ma che non deve andare a discapito della competitività con le industrie extra europee) e, soprattutto in Italia, sulla tassazione sempre più vessatoria, indirizzata soprattutto nei confronti dell’alto di gamma. Nel nostro Paese, con l’intento di colpire i “ricchi” si è completamente assottigliato (quando non colpevolizzato) un segmento di mercato che garantiva un importante gettito per le casse statali. I dati degli addetti ai lavori, parlano per lo scorso anno di un mancato incasso di oltre 2,5 miliardi. Se ci pensiamo, sono i soldi che in questi giorni il governo sta cercando per non aumentare l’IVA (sic!) Il mercato italiano è passato dai 2,4 milioni del 2007 agli 1,4 dello scorso anno: un milione di automobili vendute in meno. Se consideriamo che nel solo 2012 si sono persi oltre 10 mila posti di lavoro, possiamo immaginare quale sia stato l’impatto nel quinquennio. Tutto questo sembra interessare poco. Soprattutto a chi dovrebbe cercare di rifar partire l’economia. Come se le difficoltà delle Case auto nelle vendite (soprattutto in Europa) fossero una questione di pertinenza esclusiva dei proprietari e non un fortissimo tema sociale, oltre che una grande opportunità persa.