Questa volta non dovrebbe succedere come un secolo fa: allora l’Accademia della Scienze svedese, che nel 1916 in pieno conflitto mondiale non aveva assegnato il premio Nobel per la fisica, per quattro anni si “dimenticò” di un certo Albert Einstein che tra il 1915 e il 1916 aveva esposto la teoria della Relatività Generale e ben 11 anni prima aveva sconvolto il mondo della fisica con la teoria della Relatività Speciale. In effetti non si trattò di una dimenticanza ma di una decisione precisa, supportata dal parere di una parte della comunità scientifica che non riusciva a sintonizzarsi sulla nuova linea di pensiero del fisico tedesco e non accettava di mettere in discussione principi consolidati, che peraltro avevano ampiamente mostrato la loro validità sia teorica che applicativa.
Era un periodo di grandi mutamenti culturali e gli scienziati si trovavano a dover fare i conti con ben due teorie che rivoluzionavano il tradizionale modo di considerare i fenomeni naturali: una era appunto la Relatività, nelle sue due versioni, con il suo attacco al senso comune e le sue implicazioni cosmologiche; l’altra era la quantistica, con i suoi paradossi e i suoi dualismi ancora oggi fonte di dibattiti e questioni non risolte. Per gli austeri fisici dell’epoca, rappresentati da Lord Kelvin che pochi anni prima avevano profetizzato “abbiamo scoperto tutto ciò che si poteva scoprire”, due teorie così innovative erano troppe da digerire. Questa loro posizione si rifletteva sul Comitato Nobel, che lasciò passare 18 anni prima di assegnare, nel 1918, il prestigioso riconoscimento a Max Planck il quale all’inizio del secolo aveva introdotto l’idea dei quanti di energia legando energia e frequenza con quella costante oggi universalmente nota come costante di Planck. Ma almeno in quel caso il premio arrivò.
Per la relatività non è stato così. Quando la fama di Einstein era ormai così diffusa da non essere ignorabile dai saggi di Stoccolma, fu deciso di assegnare anche a lui il Nobel nel 1921 (premio che in realtà gli fu consegnato solo l’anno successivo): il bello è che la motivazione non riguardava la Relatività bensì “i suoi contributi alla fisica teorica e specialmente la sua scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico”. Non che questa scoperta (fatta da lui nell’annus mirabilis 1905) non fosse degna del premio; tra l’altro andava a dare un supporto a Planck, interpretando l’effetto fotoelettrico sulla base della neonata quantistica. Solo che all’inizio degli anni 20 la Relatività non era più solo una sofisticata costruzione teorica ma poteva già vantare le prime conferme sperimentali, come quella ottenuta da sir Arthur Eddington nella celebre spedizione scientifica per l’osservazione dell’eclissi di Sole del 1919, quando aveva registrato la deflessione della luce per effetto della curvatura relativistica dello spazio. Si à saputo dopo che alcuni autorevoli membri del Comitato Nobel si erano espressi in favore del padre della Relatività ma senza riuscire a prevalere sugli scettici.
Questa volta la storia non dovrebbe ripetersi. La cattura delle onde gravitazionali, avvenuta nel settembre 2015 e annunciata nel febbraio scorso ad opera della collaborazione scientifica internazionale LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory) è una conferma spettacolare della bontà della Relatività Generale, secondo la quale un brusco movimento di masse perturba lo spazio-tempo generando un’onda che il raffinato sistema di interferometri può captare. Nel caso in oggetto più che di brusco movimento si e trattato di un cataclisma cosmico come lo scontro di due buchi neri supermassicci; e le onde spaziotemporali così prodotte hanno trovato le antenne di LIGO, una nello stato di Washington, l’altra in Louisiana, pronte a rivelare il segnale e a fornire ai fisici i dati perfettamente interpretabili in base alle equazioni di Einstein.
Difficile pensare che l’Accademia delle Scienze svedese possa far finta di niente. Più difficile sarà stabilire chi riceverà, martedì 4 ottobre, la fatidica telefonata da Stoccolma con l’annuncio dell’avvenuta designazione. Infatti LIGO è un esempio di collaborazione scientifica tipica delle grandi imprese della fisica contemporanea: il singolare “osservatorio” è stato voluto e realizzato dal Caltech (California Institute of Technology) e dal MIT (Massachusetts Institute of Technology) e ha avuto il supporto della National Science Foundation (NSF) statunitense. Ma vi collaborano un gran numero di ricercatori di tutto il mondo, compresi diversi italiani: da una di questi, Laura Cadonati, il pubblico del Meeting di Rimini ha potuto ascoltare poco più di un mese fa l’appassionato resoconto della scoperta; e ancora lo potrà ascoltare il prossimo 9 ottobre durante la manifestazione BergamoScienza.
Inoltre LIGO fa parte di un network internazionale di osservatori, come GEO 600 (Germania), TAMA (Giappone) e Virgo (in Italia, vicino a Pisa). E proprio alla collaborazione LIGO/Virgo si deve l’analisi dei dati che ha portato alla scoperta.
Quindi, se vincerà la Relatività, chi sarà chiamato a ritirare il premio il prossimo 10 dicembre? Ci sono tre nomi che circolano insistentemente: Ronald W.P. Drever e Kip S. Thorne del Caltech, Rainer Weiss del MIT. Sono tre professori emeriti di fisica, che hanno contribuito notevolmente alla nascita e allo sviluppo del rivelatore interferometrico di LIGO. Di questi il più noto è Thorne, uno dei brillanti giovani astrofisici che negli anni intorno al 1970 hanno collaborato col grande John Archibald Wheeler a Princeton nello studio dei buchi neri: tra loro Charles Misner, l’italiano Remo Ruffini e il più famoso Stephen Hawking.
Ma la notorietà di Thorne è legata anche al grande schermo: ci sono infatti le sue idee sui wormhole — i tunnel spazio-temporali — dietro la sceneggiatura di due film che è riduttivo definire fantascientifici: Contact e Interstellar. Nel primo aveva suggerito all’autore, l’astrofisico Carl Sagan, di farli utilizzare dagli alieni; nel secondo, recente successo hollywoodiano, sono Matthew McConaughey e Anne Hathaway ad attraversarli alla ricerca di nuovi mondi.