Non t’ho perduta»: così poté dire Ada Negri alla sua giovinezza. Aveva, in quel momento, settant’anni.
Eppure molte volte le era sembrato di averla persa. Come quando, sulla quarantina, si voltò a riguardare la sua adolescenza, quando si sentiva «frutto che attendeva il morso. / Oh, vivere la piena vita!… Oh, fra le / avide mani stringerla, per sete / di spremerne ogni succo, ed anche il male, / e le più aspre verità segrete!…». Quell’impeto di pienezza sembrava indistruttibile. Partire dal suo paese, tuffarsi nel mondo, avrebbe compiuto il suo sogno entusiasta: «Vide paesi, vide ampie città. / Pulsar sentì nel suo fraterno cuore / il cuore enorme dell’umanità. / Le parve d’esser cento e d’esser mille». Ma, chissà perché, la promessa non fu mantenuta e, chissà quando, la giovinezza se n’era andata: «Ma a poco a poco si trovò smarrita, / né seppe come. – Ognuno era scomparso. – / Si trovò sola, a mezzo della vita, / fra le sterpaglie d’un campo riarso».
Come avrebbe potuto far ritornare quel tempo perduto? Chi potrebbe ridarsi gli occhi un tempo infiammati di speranza? «Ora vorrebbe, ma non può tornare / al tempo di sua fiera adolescenza». La giovinezza non si mantiene per forza di volontà, per autoconvinzione, perché lo si decide o ce lo si propone. E basta essere sinceri per affogare nella vergogna: «Che direbber, vedendola, i cancelli / arrugginiti?… “Ohimè, come diversa!… / Sei tu colei che aveva occhi sì belli, / labbra sì rosse, e qui tra fronda e fronda / crebbe, ed il lembo del suo cielo scorse?”» (Il giardino dell’adolescente).
Irriconoscibile, così lontana dallo slancio con cui era venuta al mondo; in fondo in fondo, sola. La solitudine diventa una scorza, a cui poco a poco ci si abitua, perché tanto non c’è niente da fare, non c’è nessuno che possa travolgerla: «Non gridi / “Son sola” per chiamar chi ti s’accosti / e t’accompagni. Forse uno verrebbe / se lo chiamassi: o, se tu andassi a lui, / nel suo sorriso leggeresti il cuore. / Ma non lo vuoi. Non credi più. Non sai / più abbandonarti alla tremante luce / della speranza». La giovinezza si perde, appunto, così: quando si allenta la speranza, e il cinismo la soppianta; quando non c’è più niente da chiedere o, peggio, quando non c’è più qualcuno a cui chiedere, e ci si rassegna alla propria condizione.
Indipendentemente dall’età, uno è vecchio quando considera eccessive le domande e illusorie le risposte: «Ancora illuderti potessi / d’essere creatura necessaria / ad altra creatura, e quella a te! / Posare il capo su la spalla d’uno / che di te tutto sappia, anche le colpe, / e tutto ami, anche il male, anche i crudeli / segni del tempo; e tutta ti raccolga / nelle sue braccia!» (Deserto).
Ma chi potrebbe amare «tutto» di un altro? Esiste qualcuno capace di abbracciare anche il male dell’altro? Un fidanzato non lo può, di certo. O, almeno, non fu così nella vita di Ada Negri: «Notte, divina notte, / dimmi ove è nascosto il mio amore: / ch’era mio e le mie braccia / non bastarono a custodirlo, / ch’era mio ed io ero sua / e adesso non ho più nulla / e non sono più di nessuno» (Notturno della luna). Quali braccia possono custodire un amore? che cosa lo salva? come si può promettere l’eterno? di chi si può davvero, sinceramente, dire «mio»?
Per non naufragare tra le onde di questa impotenza, ci si può aggrappare al misero scoglio di una saggezza agghiacciante: «più / nel tempo inoltri e più t’ostini in questa / tua superba miseria, e più comprendi / che meglio forse era non esser nata» (Deserto). Tanto il tempo porta via tutto, corrode la giovinezza: «Giorno per giorno, anno per anno, il tempo / nostro cammina!». «Non è sorta l’alba / che piombata è la notte; e già la notte / cede al sol che ritorna, e via ne porta / la ruota insonne» (Tempo).
Il tempo lavora contro, senza che l’attesa della giovinezza venga mai realizzata: «Il dono eccelso che di giorno in giorno / e d’anno in anno da te attesi, o vita / (e per esso, lo sai, mi fu dolcezza / anche il pianto), non venne: ancor non venne. / Ad ogni alba che spunta io dico: “È oggi”: / ad ogni giorno che tramonta io dico: /”Sarà domani”». Eppure nulla accade.
Proprio qui, tuttavia, accade l’intuizione imprevedibile: quando Ada Negri realizza che il dono che attende invano, in realtà, l’ha già ricevuto. Non è qualcosa che forse verrà, chissà quando, chissà se; è qualcosa di cui accorgersi: «e forse il dono che puoi darmi, il solo / che valga, o vita, è questo sangue: questo / fluir segreto nelle vene, e battere / dei polsi, e luce aver dagli occhi; e amarti / unicamente perché sei la vita» (Il dono). Eccolo, il dono: il fatto di esserci. Il dono è la vita, che – proprio perché è data – serve per essere a sua volta data: «Vita, dono di Dio: che ho dunque fatto / di te?». Un dono gratuito, paradossalmente, esige una responsabilità, mette sulle spine. Ed è lancinante la puntura del Rimorso: «In nome / di qual sogno t’offersi, per qual fede / a perderti fui pronta, a chi passai / la tua fiaccola ardente? Sol per questo / data mi fosti; e adesso è tardi, o vita. / Quando misera e sola innanzi al Padre / sarò, che gli dirò, qual luce in terra / avrò lasciata, a gloria sua?».
Questa vita può essere davvero mia solo quando mi rendo conto che non è mia: va data, perché diventi mia. Solo che urge sapere per che cosa dare la vita; altrimenti il tempo ce la porta via. «Ma forse / ancora è tempo di donarti, o dono / di Dio. Fin ch’io respiri, ancora è tempo». L’offerta della vita è possibile in questo istante, qualunque passato morda di amarezza. Offrirla, però, per cosa? C’è qualcosa che vale quanto la propria vita? C’è qualcosa per cui lo slancio del cuore non va sprecato, sparpagliato, disperso? «Ogni atto / di vita, in me, fu amore. Ed io credetti / fosse per l’uomo, o l’opera, o la patria / terrena, o i nati dal mio saldo ceppo, / o i fior, le piante, i frutti che dal sole / hanno sostanza, nutrimento e luce; / ma fu amore di Te, che in ogni cosa / e creatura sei presente». Ada Negri ha amato, ha dato la vita per la gente, per la poesia, per la patria, per la natura, per alti ideali: ma tutto era troppo poco. Dentro ognuno di questi amori ce n’era un altro, in agguato, che si nascondeva. E si è svelato piano piano: non che Ada Negri a un certo punto sia arrivata a capire questo Tu (per progressione mentale), ma sempre di più è stata lei a non potersi nascondere a questo amore che la precedeva, e la leggeva dentro: «Non seppi; – ma a Te nulla occulto resta / di ciò che tace nel profondo» (Atto d’amore). Voleva inoltrarsi nel profondo, ma fece prima il suo profondo a trovarsi trapassato: «A Te solo non posso / celarmi. Oscuro smisurato è il fondo / dell’essere. Non v’ha pupilla umana, / s’io lo nascondo, che a scrutarlo arrivi. / Ma nulla al tuo tremendo / potere è tolto. Sta l’anima ignuda / sotto il divino sguardo / che la trapassa» (La verità).
È lo sguardo che l’ha sempre aspettata, paziente affinché lei lo percepisse, si rendesse conto di ciò che già era stata tutta la sua vita: «Or – Dio che sempre amai – t’amo sapendo / d’amarti; e l’ineffabile certezza / che tutto fu giustizia, anche il dolore, / tutto fu bene, anche il mio male, tutto / per me Tu fosti e sei, mi fa tremante / d’una gioia più grande della morte». Sono stoccate di una gravità abbacinante: il dolore è stato giusto, il male commesso è stato un bene. E poi quel «tutto», senza attenuanti, senza parentesi: non è il “quasi tutto” che ciascuno potrebbe dire a un altro. L’altro, infatti, sarà sempre, per forza di cose, un “quasi”, perlomeno perché non può salvare la giovinezza di chi ama: non può ridarla indietro, non può aggiungerle niente. Ma se c’è qualcuno che rinnova la giovinezza, allora sì, glielo si può dire: «tutto».
Infatti l’esito di questo rapporto è incredibile: «Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo / all’essere. Sei tu, ma un’altra sei: / senza fronda né fior, senza il lucente / riso che avevi al tempo che non torna, / senza quel canto. Un’altra sei, più bella. / Ami, e non pensi essere amata: ad ogni / fiore che sboccia o frutto che rosseggia / o pargolo che nasce, al Dio dei campi / e delle stirpi rendi grazie in cuore» (Mia giovinezza). Abissale questa indifferenza all’avere, questo bastare del dare, che non vuole niente indietro, né una corrispondenza né, almeno, un grazie.
Che strano, questo scoppio di gratitudine. Che non è ingenuo, perché sboccia come un fiore nel campo del dramma e del male, dentro una battaglia che ha lasciato i segni. Ma è un fiore che, davvero, non si può strappare. Perché non è “mio”, non è stato seminato, insomma non è nato per uno sforzo di volontà. Esige rispetto, proprio perché è stato dato. Alla domanda tutta personale e tremante dell’adolescenza («”Non verrà mai / un meriggio che sia senza tramonto?” / E quando il sole, al suo sparir, all’orlo / della cimasa mi diceva “addio”, / sempre quel dubbio m’assaliva: “O luce, / e se domani non tornassi più?”»), a questa domanda disarmante, ma tutta umana, smisuratamente umana, la risposta è venuta da fuori. Come un bene che non si cancella mai: «Fedele, ogni alba, a me tornò la luce / lungo il fiume degli anni; e fu il mio bene / più grande: il bene che non si cancella / mai, per volger di tempo e di vicende» (Il sole sul muro). La realtà, ripresentandosi ogni mattina, offrendosi ancora una volta allo sguardo, non l’ha mai tradita. La sua speranza si è offuscata ma, fedelissima, l’alba tornava ogni giorno a riprenderla. Ed è per questo che Ada Negri può gridare quel «mio», alla puntualità con cui si riaffaccia l’alba e alla sorpresa con cui riesplode la giovinezza: perché nulla è tanto nostro come quello che non facciamo noi, che non ci diamo noi, ma che risponde a una domanda che è tutta, intimamente, nostra. E a cui non sapremmo mai risponderci.