Se saranno confermate le indiscrezioni di questi giorni, la “Buona Scuola” potrebbe diventare una “scuola piena”. Gli insegnanti precari di cui nessuno può misurare le competenze didattiche, capacità relazionali e attitudini personali, entreranno in massa per ottemperare alla sentenza della Corte europea di Giustizia che ha imposto all’Italia di assumere tutti i docenti che abbiano avuto contratti per almeno 36 mesi. Erano previste 148mila assunzioni, più probabilmente saranno 134mila. Un vero esercito di nuovi docenti a tempo indeterminato che si andrà ad aggiungere a un personale di ruolo già molto numeroso, costituito alla fine dello scorso anno scolastico da 728.325 persone (i dati Miur 2013-14 indicano i posti normali più il sostegno), a cui si deve sommare tutto l’organico Ata (assistenti, tecnici e amministrativi) che ammonta a a 210.561 unità.
Nuovo personale però non significa docenti giovani. La maggior parte dei prossimi assunti infatti è avanti con l’età, ha carriere frammentate e negli anni ha ottenuto in modo non sempre continuativo incarichi di insegnamento, spesso in sedi scolastiche diverse, sommando i cosiddetti spezzoni per raggiungere l’orario cattedra di 18 ore. Si tratta di persone dall’estenuante gavetta, che ha soggiornato a lungo nelle graduatorie per mancanza di concorsi, per effetto dei tagli lineari, per la riduzione del personale. Il decreto, atteso — dopo l’ultimo rinvio — per martedì 3 marzo e che varerà le assunzioni in sanatoria, opererà in regime d’emergenza e come sempre accade in questi casi, non porterà qualità all’istruzione italiana. Si tratta di un provvedimento quantitativo che non interviene in nessun modo sulla formazione del personale e non si discosta dalla logica del posto fisso.
Non è infatti una novità, se si guarda ai docenti che ora sono a fine carriera. Chi è entrato in servizio negli anni Ottanta, non ha infatti mai dovuto aggiornarsi e confrontarsi sul suo modo di insegnare, anche se si è dovuto misurare con mode pedagogiche o indicazioni didattiche introdotte dal centralismo ministeriale, più valide sulla carta, che nella pratica in classe. Se è vero allora che nella scuola italiana ogni docente si è fatto da sé, e anche noto che nessuno ha mai sindacato realmente sul suo modo di lavorare. Non per sanzionare, ma per incentivare e sostenere. Basta entrare in una qualsiasi scuola per notare come la maggior parte del corpo docente soffra di problemi motivazionali e che si risponde al problema educativo, oggi divenuto una vera e propria emergenza, con la buona volontà dei singoli.
Chi tra coloro che governano la scuola si è occupato veramente del cambiamento radicale che sta modificando il modo di apprendere e ha formato professori e maestri pronti a lavorare con i giovani delle ultime generazioni? Oggi infatti, i giovani non apprendono più solo tramite il libro tradizionale e non si avvalgono della memorizzazione dei contenuti, che tramite la concettualizzazione si trasformava in informazione e quindi in conoscenza.
Strano a dirsi, ma al di là della propaganda, i fondi per la formazione non sono stati reperiti. E’ notorio che la scuola la fanno i docenti, ma se della loro formazione nessuno si occupa, che risultati il governo della “Buona Scuola” vuole ottenere?
In più in questi anni della cattedra a 18 ore, con il personale sempre più misurato, è venuta in evidenza un’altra piccola emergenza. Il “tutti in classe” ha portato a non fare sconti a nessuno (o quasi) e quindi tutti quelli che, per vari motivi, hanno perso le capacità didattiche, sia per problemi di salute, che personali (una volta andavano in biblioteca), oggi sono costretti a rimanere in cattedra. Non ci sono dati ufficiali e il ministero ben si guarda di fornirli, o forse non li conosce, ma coloro che non sanno più guidare una classe sono molto numerosi, forse attorno al 10 per cento.
In questo modo i dirigenti non possono fare altro che, nella logica del male minore, far ruotare questo personale, in modo che in un anno una classe non studi matematica, mentre nell’altra le competenze di latino siano minime. Insomma un aggiustamento all’italiana, che rivela come la scuola poco si interessi del suo cuore pulsante e che tra assunzioni ope legis e stipendi molto al di sotto della media europea, sia ancora vigente la regola, nata al tempo dei ministeri democristiani, del “poco vi diamo, ma poco vi chiediamo”. Il premier Renzi e il ministro Giannini, non sembrano discostarsi dal seminato.