Gli articoli che dalle pagine del Corriere della Sera e di Repubblica hanno acceso i riflettori sui risultati dell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo di istruzione hanno sollevato alcuni interrogativi interessanti. Per due ordini di motivi: il primo è che si richiama l’attenzione su alcuni dati che in passato non ricevevano alcuna considerazione dall’opinione pubblica; il secondo riguarda il modo in cui questi dati sono letti, ossia il tipo di domande che ne orientano la lettura.
L’attenzione agli esiti di profitto di un anno scolastico che riguardano il nostro Paese è di per sé un fatto positivo, poiché fa uscire dall’angolo — almeno da un punto di vista culturale — le vicende scolastiche legate alla valutazione degli studenti e al funzionamento del sistema scolastico nazionale. Tuttavia, il modo in cui ciò viene fatto rivela alcune rischiose direzioni e riduzioni che orientano e motivano questo lavoro di giudizio. E in effetti questo è stato un anno in cui la scuola ha ricevuto molte attenzioni, ma quasi mai inerenti la sua vera natura e scopo.
Ciò che ha suscitato tanta attenzione sull’esame di maturità è stato ritenuto il dato dei dati (!): l’impennata di “100 e lode” che alcune regioni del Sud (Campania e Puglia in testa) hanno fatto registrare rispetto allo scorso anno, portando la percentuale delle eccellenze a livelli di gran lunga più alti rispetto alle regioni del Nord. Angelo Lo Monaco in un articolo dell’11 agosto restituisce questo dato inserendolo utilmente dentro la geografia ben più ampia e complessa degli esiti di fine anno. Il dato rimane comunque pesante. Ricordiamo che il decreto 99/2009 del ministro dell’Istruzione all’articolo 2 recita “Con l’attribuzione della lode, prevista dalla legge 11 gennaio 2007, n.1 art.1, capoverso art.3, comma 6, la commissione di esame attesta il conseguimento di risultati di eccellenza negli ultimi tre anni del percorso scolastico e nelle prove d’esame”.
Infatti, le condizioni per ottenere la lode prevedono che lo studente abbia avuto in tutte le materie solo voti uguali o superiori all’8 negli ultimi tre anni di scuola (e non la media dell’8), il massimo del credito scolastico annuale attribuito all’unanimità dal consiglio di classe negli ultimi tre anni e il massimo del punteggio nelle prove di esame — anch’esso attribuito all’unanimità da parte della commissione — così da raggiungere il 100 senza l’attribuzione dei 5 punti di bonus.
A fronte di ciò, vien da dire che il dato era interessante già lo scorso anno e non solo. Ma, oggi, pare faccia più notizia. E, fatto salvo il già citato articolo di Lo Monaco, viene trattato come l’unico dato. Anno particolare, dicevamo. C’è anche la valutazione dei dirigenti…
Questo dice tuttavia di una riduzione di analisi ingiustificatamente superficiale. Condita, neanche a dirlo, dai toni di scandalo di chi si crede vittima di un’ingiustizia per mano di un Sud che fa il “furbo” alla faccia di un onesto Nord. Abbiamo speso fiumi di denaro per educare i giovani all’apertura e al rispetto dell’altro in barba agli stereotipi. Ed ora diamo tutto in pasto al più vecchio che la storia d’Italia ricordi. E la “prova” che i voti dati al Sud non valgono quanto quelli del Nord quale sarebbe? I risultati delle prove Invalsi, in cui i 15enni del Nord sono più bravi.
Una tesi simile induce ad alcune considerazioni. La prima è un dubbio doloroso: non si ha ancora chiaro cosa sono le prove standardizzate Invalsi, a cosa servono e — sic — non se ne sanno leggere i risultati (sempre più caratterizzati da indici di varianza che restituiscono una complessità “a macchia di leopardo”). A riprova di questo equivoco, l’uso di questa lettura parziale dei “100 e lode” per giustificare il necessario inserimento della prova Invalsi come parte integrante dell’esame di maturità, con ciò tralasciando del tutto l’ampio e ben frequentato dibattito che negli ultimi anni ha posto solidi argomenti per la sua eliminazione dall’esame di stato conclusivo del I ciclo.
Non è infatti ammissibile che delle prove standardizzate, ossia prove scalari oggettive di profitto tarate su campioni statisticamente rappresentativi della popolazione di riferimento, i cui risultati hanno lo scopo di costituire un utile elemento di confronto per conoscere e valutare l’efficacia di un sistema, siano utilizzate per valutare la performance degli alunni/studenti di un esame di fine ciclo. Ciò costituisce una violazione degli epistemi basilari della didattica e della libertà di insegnamento, oltre che dei principi fondanti il nostro sistema di istruzione e formazione discendenti dalla Costituzione. Ed eccoci ad un’altra considerazione: forse è sorta una certa confusione su cosa sia l’esame di maturità. Ciò è più plausibile, visto che l’obiezione posta dalla Fondazione Agnelli della necessità di un esame unico non è chiara. Le prove sono già ministeriali.
E allora dovremmo avere il coraggio di riaprire il ben più serio dibattito sul valore legale del titolo di studio, che ad oggi la normativa “risolve” con la certificazione di competenze assumendone come riferimento ideale i quadri Invalsi e Ocse-Pisa. Peccato che in Italia la certificazione di competenze sembri uno scotto da pagare alle raccomandazioni europee, un “pezzo di carta” in più che non legge nessuno. Forse perché ci è caduta dall’alto e non è il frutto di una riflessione pedagogico-didattica fatta dal basso.
Perché non aprire una terza via? Perché non scatenare le domande e iniziare a riflettere insieme, dirigenti e insegnanti del Nord, del Sud, del Centro (insegnanti del Sud da sempre al lavoro al Nord e chi più ne ha più ne metta), su cosa sia questo titolo di studio che rilasciamo? Cosa sono le competenze che certifichiamo? E, forse, i licei che sono il Nord socio-culturale di questo Paese avrebbero da imparare dal Sud, ossia i professionali. E viceversa.