Un’altra magia del Mago. Ha appena compiuto 60 anni Maurizio Zanolla, meglio noto come Manolo, e anche Mago, uno degli alpinisti da contare sulle dita delle mani tra quelli che hanno fatto la storia delle montagne. Ma questa è la sua autobiografia: Eravamo immortali (Fabbri 2018), non una scalata.
A leggerla, sembra più che fossero immortali per essere sopravvissuti, lui e i suoi amici, a innumerevoli rischi in bici, moto, auto, gommone per raggiungere le amate pareti in Veneto, Trentino o Sardegna, più che ai pericoli delle rocce verticali, che Manolo minimizza con grande understatement. Lo stesso understatement di George Mallory che rispondeva “Perché è là” a chi gli chiedeva perché scalare l’Everest. E Manolo, in un’altra definizione memorabile del perché salire le montagne, dice “ho rincorso me stesso verso l’alto, oltre i boschi. Finché c’erano solo pietre appoggiate ad altre pietre, e in cima all’ultima il cielo”.
Che Manolo abbia fatto la storia dell’alpinismo lo scrisse subito Alessandro Gogna, che definì “Supermatita”, la via più famosa di Manolo sulla est del Sass Maor nelle Pale di San Martino (anno 1980, 1200 metri al di là della verticale, con soli 7 chiodi normali), “un capolavoro, il vero balzo in avanti dopo Vinatzer, Rebitsch e Messner: per Manolo la chiave di accesso alla leggenda”. E lo stesso Reinhold Messner, un altro che se ne intende, scrisse che le vie di Manolo furono subito “accettate di settimo grado” e che “l’arrampicata stava voltando pagina”. Ma in questo libro, in realtà, ci sono pochi racconti di scalate e molti di vita spericolata di un bambino poi ragazzo poi uomo nella Feltre del pre e post ’68, tra i miti opposti del buon posto in fabbrica e del Che. Piccoli capolavori di memoria e umorismo.
Per chi cerca comunque pagine memorabili di lotta con l’Alpe, ci sono. Con un protagonista nascosto anche se ingombrante, il famigerato chiodo a pressione, poi diventato spit, totem e tabù di decenni di alpinismo. Manolo lo rifiutava sempre, saliva “pulito” come Messner senza trapanare la roccia, e frugava negli zaini dei compagni di scalata per buttar via alla base delle pareti quelli che ci avevano comunque messo per avere una sicurezza in più. Alla fine di un’epica “prima” sulle Marmarole, il compagno si tolse dolorante scarponi e calzini: dentro ci aveva nascosto punteruolo e chiodi a pressione, per nasconderli a Manolo.
Non a caso, l’autobiografia finisce nel 1981, con Manolo ancora giovanissimo, quando per aprire la mitica via “Mattino dei Maghi”, sulle rocce del Totoga alla base delle Pale di San Martino, piantò alcuni malfermi chiodini a pressione. “La sensazione fu che qualcosa si fosse lacerato per sempre. Niente, dopo, fu come prima. Ma ero vivo”.