Il quarantennale del compromesso storico, che è appena ricorso in questo agitato settembre 2013, avrebbe potuto trascorrere tutto sommato in sordina, certo doverosamente considerato nell’agenda scientifica e convegnistica di noi contemporaneisti, e a un tempo facilmente ignorato dall’opinione pubblica, se si eccettua qualche lodevole trasmissione televisiva “educational”, con bei filmati d’epoca a tarda ora.
Ma se i corsi e ricorsi storici di vichiana memoria possiedono per noi italiani ancora qualche elemento di fascino, è perché la nostra vicenda politica contiene indubbiamente elementi ciclici, che forse potrebbero sottendere un “basso continuo” di staticità e incapacità di crescita insite nel carattere del nostro popolo; o, in realtà, tali elementi potrebbero mostrare un’identità complessivamente molto meno divisa e persino più patriottica di quanto le contrapposizioni personalistiche e ultramediatiche della “seconda repubblica” abbiamo restituito a noi e alla comunità internazionale.
Così, l’italica “Große Koalition”, stabilita nel nostro paese con la salita al governo di Mario Monti il 16 novembre 2011 e proseguita (fino a quando?) da Enrico Letta a partire dal 28 aprile 2013 – pure con le evidenti differenze contestuali che hanno dettato i comportamenti della classe politica italiana nel suo insieme a quarant’anni di distanza, non possono non richiamare alla nostra memoria i vividi contorni di un’operazione che vide coinvolti dal 1973 al 1979 i due grandi partiti di massa italiana di allora, la Dc e il Pci, in qualche misura progenitori degli attuali schieramenti prodotti dal sistema maggioritario.
Allora si trattò d’intese “diversamente” larghe, in quanto il leader comunista Enrico Berlinguer non finì mai per traghettare espressamente il suo partito all’interno della compagine di governo, limitandosi ad un ruolo comunque esterno. Tutto nacque come un’offerta di collaborazione avanzata da Berlinguer ai democristiani allora guidati da Aldo Moro, suscitata nel leader di origini sarde da un complesso di preoccupazioni interne e internazionali (il rapporto del Pci con l’Urss e la percezione di questo in Italia), e soprattutto dettate dalla necessità di legittimare il Pci sulla scena nazionale ed estera in quanto forza di governo autorevole, prendendo le distanze da quel modello, anche mediatico, di partito sempre all’opposizione, figlio della democrazia “bloccata” e nemica dell’alternanza sortita dalle urne del 1948. Ma nel compromesso era soprattutto insita l’idea che l’Italia per potersi riprendere, dopo la fine del boom economico e la susseguente drammatica fase postsessantottina di disordine civile e crisi economica, dovesse allora affrontare un radicale risanamento sociale ed economico, che solo un accordo – pur episodico e a tempo determinato – tra forze popolari socialcomuniste e cattolico democratiche, avrebbe potuto consentire.
Come linea politica dettata in origine da una lunga riflessione interiore di Berlinguer, poi diffusa all’opinione pubblica italiana attraverso tre suoi pezzi apparsi su Rinascita (usciti tra il 28 settembre e il 12 ottobre del 1973) dopo i drammatici avvenimenti del golpe cileno, e in singolare concomitanza con il drammatico frangente dell’attentato subito dal leader comunista a Sofia il 3 ottobre del medesimo anno (sui cui peraltro ancora si discute in chiave storiografica), il compromesso storico si configurò dall’inizio piuttosto come un patto esterno, comunque non di mera desistenza, ma di astensione costruttiva e solidarietà nazionale da parte del Pci, che incontrava – in un crescente idem sentire programmatico – le posizioni tattiche del “campione” cattolico dell’apertura a sinistra, quell’Aldo Moro che non a caso avrebbe poi pagato di persona il suo ruolo chiave nel dialogo aperto tra centro e sinistra in Italia.
I fatti più concreti prodottisi nell’agenda politica nazionale furono così costituiti dall’astensione dei comunisti praticata nei confronti del governo presieduto da Giulio Andreotti tra il 1976 e il 1977, il suo terzo, anche indicato appunto come “monocolore della non sfiducia”. I fatti di via Fani – prodottisi proprio nel giorno in cui il parlamento si sarebbe dovuto esprimere sulla fiducia a un nuovo governo Andreotti di profilo decisamente più consociativo – e la fine di Moro, avrebbero di fatto posto fine ad un processo di avvicinamento e legittimazione che in concomitanza aveva visto il Pci toccare il suo massimo storico elettorale, e ottenere la nomina a presidente della Camera di Pietro Ingrao. Sul piano strettamente istituzionale, il compromesso funzionò però ancora – proprio sull’onda emotiva dell’omicidio di Moro e la paura di una crisi civile – attraverso proprio quella solidarietà nazionale assicurata ancora dal Pci al governo delle “convergenze programmatiche” del 1977, ed a quello successivo monocolore Dc della “solidarietà nazionale”, fino alle dimissioni di Andreotti nell’estate del 1979.
In fondo, il progetto di Enrico Berlinguer, a cui aveva aderito anche se provvisoriamente gran parte della classe dirigente democristiana, prendeva le mosse dalla constatazione che l’Italia stava allora versando in uno stato di precarietà civile e istituzionale non molto dissimile da quello che si era prodotto all’indomani dalla fine della guerra e che aveva prodotto i governi De Gasperi di unità nazionale partecipati da tutte le forze dell’arco costituzionale. Senza dubbio le due crisi erano da considerarsi contestualmente diverse: la prima aveva rappresentato una fase in cui il paese si era proteso coraggiosamente per elevarsi dalle macerie, materiali della guerra mondiale, e spirituali della guerra civile con cui si era conclusa la stagione fascista; la seconda crisi, il momento in cui l’Italia si era scoperta attraversata da una paura serpeggiante di involuzione sociale ed economica.
Il compromesso storico doveva appunto evitare da noi quella destabilizzazione civile che nel Cile di Allende si era appena prodotta in senso autoritaristico: per scongiurare un simile esito l’unica via percorribile sembrava allora quella di porre mano ad una serie di vaste e profonde riforme istituzionali e sociali, che solo il concorso della maggioranza delle forze democratiche in campo nel nostro paese avrebbe potuto assicurare.
Se trasponiamo questo pensiero politico e queste sensazioni in ciò che sta accadendo in questi giorni, mentre i ministri di una compagine di governo di “larghe intese” (da taluni avvicinato – magari anche solo per spirito piuttosto che per contenuti – all’esperimento Berlinguer-Andreotti degli anni Settanta), si stanno dimettendo in blocco per ragioni non del tutto chiarite, verrebbe indubbiamente da chiedersi quanto ci sia stato di opportuno nell’aver voluto riproporre un “ricorso” storico politico nel nostro paese alla luce di un superiore senso di responsabilità nazionale.
Certo, non asseconda la richiesta di solidarietà oggi così urgentemente diffusa chi, come recentemente ha fatto Gad Lerner, ha voluto leggere nei tentativi di dialogo dettati da superiore senso di lealtà ed amore verso il nostro popolo, un innato e quasi pervicace senso di debolezza che sarebbe insito nella cultura della sinistra, e che lo ha spinto a giudicare Enrico Berlinguer come “il leader di gran lunga più amato e rimpianto della sinistra italiana, pur essendo un perdente”, il quale avrebbe finito per “rinchiudere il suo partito in un destino di minoranza, togliendogli pure l’illusione che un giorno ce l’avrebbe potuta fare”.
Mi sembra questa una forma di sclerotizzazione ideologica, secondo cui solo antiche forme di contrapposizione tra destra e sinistra risponderebbero allo spirito autentico di una parte di paese volta a sostenere le istanze sociali. Mentre, lo dico sommessamente, proprio una retta e soprattutto alta concezione di un dialogo e collaborazione tra le forze in campo di cui statisti come Moro, Berlinguer e pure Andreotti si sono fatti interpreti in una stagione altrettanto tribolata quanto la nostra può costituire un modello di scelte e di comportamenti politici che pure gli italiani sembrano aver voluto indicare nel più importante degli esercizi democratici, le elezioni.