Al lettore che abbia disdegnato di partecipare ai festeggiamenti per la festa della Liberazione si consigliano alcuni libri fondamentali, che spiegano bene cosa sia stato il meglio della Resistenza e come si debba guardare, per il nostro stesso bene, agli eroi e non ai maniaci omicidi per giudicare un passato e desiderare di emulare i grandi anziché sentirci migliori dei pessimi. Eravamo partigiani: ricordi del tempo di guerra del grande storico Raimondo Luraghi, medaglia d’argento, ricrea le gesta di Pompeo Colajanni, il leggendario “Barbato”, comunista, avvocato, ufficiale di cavalleria, comandante della divisione “Garibaldi Piemonte”. Un uomo, invero, formidabile. Si consiglia anche la lettura di La guerra dei poveri di Nuto Revelli, ferrigno comandante della brigata “Carlo Rosselli” e di Senza bandiera di Edgardo Sogno conte Rata del Vallino di Ponzone, volontario coi nazionalisti in Spagna, fiero oppositore delle leggi razziali antisemite, medaglia d’oro, d’argento e di bronzo della Resistenza: pochi libri d’avventura giungono a questi livelli.
Questa introduzione serve a sgombrare il campo da possibili, future critiche alle affermazioni contenute nel presente articolo e che riguardano le indagini compiute sulle motivazioni di alcune medaglie d’oro al valor militare (Movm) della Resistenza.
Complessivamente la massima decorazione militare è stata conferita a 407 partigiani con concentrazioni nei teatri di operazione del Piemonte (88) e dell’Emilia (87). Va notato che in Emilia tali decorazioni crebbero impetuosamente dalla metà del 1944 al 1945, anche a seguito degli avvenimenti sulla Linea Gotica che andava dalla Versilia alla Romagna, mentre in Piemonte lo sviluppo appare costante. Quanto ai reparti, gli appartenenti a formazioni garibaldine, a guida comunista, decorati con Movm sono i più numerosi superando il centinaio. Sempre sulla base di prime ricerche si può calcolare che i comunisti decorati con Movm sono 75 e i cattolici 77: due i valdesi e due gli ebrei. Già da queste prime note si può considerare quanto sarebbe interessante uno studio comparativo su queste personalità, spesso giovani. Una constatazione doverosa: ben 373 medaglie sono conferite alla memoria perché questi eroi non sopravvissero alle proprie gesta.
D’altra parte, proprio da queste prime indagini risaltano alcune motivazioni alquanto strane e contraddittorie. Va premesso che, in quanto seguirà, non vi è alcun intento derisorio nei confronti di questi poveri morti: derisione e, in qualche caso, disprezzo vanno esclusivamente a coloro che hanno falsificato la realtà per fini politici o personali.
Il tenente dei bersaglieri Antonio Cambriglia, per esempio, aveva combattuto durante le Quattro Giornate di Napoli, si arruolò nella V armata americana e venne paracadutato vicino a La Spezia per prendere contatto coi partigiani. “Accettato combattimento con pochi patrioti contro preponderanti forze nazifasciste — così recita la motivazione della sua Movm — conscio della propria sorte … chiudeva la sua eroica vita ecc”. Per lo storico Antonio Bianchi, nel suo La Spezia e Lunigiana: società e politica dal 1861 al 1945 Cambriglia fu ucciso durante una rapina il 2 novembre del 1944. Bianchi appare sicuramente ben informato e credibile: e allora perché questa motivazione?
Con il comunista Demos Malavasi si arriva al pirandelliano “così è se vi pare”. Sul sito dell’Anpi la nota biografica su Malavasi riporta la sua uccisione il 9 settembre 1943 ad opera dei tedeschi. Subito dopo, però, si riporta quasi integralmente la motivazione della Movm che descrive come il Malavasi “partecipava alla lotta partigiana … in numerosi fatti d’arme, con il fuoco del suo mitra uccidendo tredici tedeschi” poi altri due a colpi di pistola. Data della morte di questo Rambo comunista nella motivazione (espunta sul sito dell’Anpi) 1° dicembre 1944. Ora, viene da fare una sola domanda all’Anpi: perché? Perché riportare due versioni incompatibili sulla stessa pagina?
Se poi si passa a Marzabotto e dintorni siamo nella Gardaland delle balle con una sola terrificante verità: il sadismo del battaglione esplorante della 16ma divisione “Reichsfuhrer SS” comandato da Walter Reder, oltre alla brutalità delle altre truppe germaniche. Quanto alle vittime civili per mezzo secolo si è parlato di 1.830 vittime, salvo poi considerare che in tale numero sono stati compresi anche i civili uccisi dai partigiani e dai bombardamenti alleati. Oggi si riconosce in 770 la cifra esatta. Nemmeno lo storico fascista Giorgio Pisanò sfugge alla regola quando afferma che i nazisti ebbero solo il famigerato “Cacao” come guida mentre gli scampati di almeno tre zone diverse sentirono dei nazisti parlare in dialetto emiliano. In quell’occasione morì il comandante Mario “Lupo” Musolesi, “attaccato infine da schiaccianti forze di SS tedesche, si difendeva disperatamente e cadeva da eroe alla testa dei suoi uomini”. In realtà “Lupo”, il vicecomandante Gianni Rossi e un terzo partigiano Gino Gamberini andarono a cercare aiuto: solo Rossi riuscì a fuggire e Musolesi non era alla “testa dei suoi uomini”.
In effetti tutta la storia della formazione partigiana “Stella Rossa” è oscura e costellata di enigmi. Ma la motivazione della Movm conferita al giovane Gastone Rossi è chiara al di là di ogni dubbio: “in una dura azione di fuoco accortosi che una mitragliatrice nemica decimava i partigiani, si lanciava da solo all’assalto per distruggerla a colpi di bombe a mano, immolando così i suoi sedici anni alla Patria. — Marzabotto, 3 settembre 1944”. Ma il bollettino del Comando Unico Militare Emilia Romagna del 5 settembre 1944 racconta che Rossi morì in seguito a ferita riportata per un incidente di servizio. E, in effetti, vi fu un procedimento penale a carico di Cleto Comellini per omicidio colposo dato che i due ragazzi, il 3 settembre, mentre giocavano con una pistola carica, fecero partire un colpo che uccise il povero Gastone: ma la motivazione rimane sul sito del Quirinale e su quello dell’Anpi: perché?
La storia di Augusto Bazzino, partigiano ligure, si intreccia con quella della sventurata Giuseppina Ghersi, seviziata e massacrata a tredici anni dai partigiani dopo la Liberazione. Nella motivazione della Movm si legge che Bazzino, combattendo alla testa dei suoi uomini, rimase gravemente ferito, morendo il 28 aprile. In realtà due giorni prima lo zio di Giuseppina, Attilio Mongoli, borsanerista, stava per essere fucilato dai partigiani con altri disgraziati dagli uomini del Bazzino. Un condannato cercò di fuggire e Bazzino lo inseguì ma un partigiano tirò una raffica uccidendo il condannato e ferendo a morte il proprio comandante.
Ma, forse, la più tragica e falsa motivazione è quella di un eroico militante socialista, Paolo Fabbri. “Nel corso di una azione di collegamento … addentratosi tra i nevosi valichi dell’Appennino, stremato di forze, perdeva la vita. 14 febbraio 1945”. Ora, conferire una medaglia d’oro a uno che muore congelato pare davvero eccessivo, ma le cose non sono andate esattamente così. Paolo Fabbri e il suo compagno Mario Guermani avevano compiuto la propria missione e dovevano ritornare a Bologna con molto denaro per la Resistenza. All’ultimo momento lasciarono la somma al comando partigiano socialista e si avviarono nella neve accompagnati da una guida locale, Adelmo degli Esposti. Questi rientrò alla base da solo affermando di aver sentito spari ed esplosioni e di aver perso di vista i due comandanti partigiani che furono trovati solo dopo la fine della guerra. Era evidente che non erano morti di freddo dato che le loro teste erano state perforate da proiettili di grosso calibro. Ma questo episodio rientra in un argomento più ampio che sarà affrontato nella prossima puntata: i partigiani uccisi da altri partigiani.
(2 – continua. Leggi qui la prima puntata)