Tra i punti caldi della scuola italiana, forse caldo quanto il tema dell’immissione nella scuola dei giovani insegnanti, vi è la formazione in servizio dei docenti che occupano un posto cattedra. Chi si occupa di loro? Chi valuta o valorizza la proposta didattica e formativa che offrono per capire se è almeno minimamente in sintonia con le esigenze di apprendimento degli alunni? Nessuno. Non esiste nel nostro Paese un percorso di aggiornamento e qualificazione del corpo docente, sebbene i contratti nazionali della scuola specifichino che “la funzione docente si fonda sull’autonomia culturale e professionale dei docenti che si esplica nella attività individuali e collegiali e nella partecipazione alle attività di aggiornamento e formazione in servizio”. Leggiamo attentamente questo periodo, tratto, lo ripetiamo dal testo base del contratto nazionale vigente: il docente è inteso come “funzione” di un ingranaggio, perciò la sua qualificazione deriva, nonostante il richiamo all’autonomia culturale, dalle necessità del sistema. Vengono aggiornati, si fa per dire, i docenti appena immessi in ruolo oppure alcuni docenti selezionati per scuola, nel caso di progetti importanti promossi dal Ministero e riguardanti l’applicazione delle riforme scolastiche oppure l’abbattimento della dispersione nelle regioni del Sud o, ancora, l’introduzione delle nuove tecnologie.
Insomma, l’amministrazione misura l’aggiornamento dei docenti sulla base delle sue necessità di autosussistenza e non di quelle del personale insegnante, cui pure viene riconosciuta una professionalità e uno statuto culturale. Non ci si rende conto che l’insegnante è anzitutto un soggetto la cui coscienza è radicata (o dovrebbe essere) nella motivazione originaria che l’ha spinto a fare il mestiere che fa: la vocazione alla comunicazione di sé attraverso la materia che insegna. Non a caso una ricerca di qualche anno fa a cura della Fondazione Agnelli dimostrava che la prima identità che l’insegnante attribuisce a sé stesso è quella definibile “didattico-motivante”: un termine tecnico che significa che all’insegnante piace trasmettere all’alunno un sapere che si esprime nella disciplina o comunque nel percorso di insegnamento/apprendimento di cui egli si occupa. Esiste dunque una domanda di continua maggiore e migliore comprensione dei dati molteplici e sempre da riscoprire offerti dalle materie di insegnamento, che non sono da considerare come apparati di concetti e pratiche fissati una volta per tutte, ma appunto come oggetti di una realtà che parla e chiede di essere interpellata nel lavoro che ogni giorno si svolge in classe.
È a questo livello dell’itinerario di costruzione in Italia di un insegnante di qualità, capace di trasmettere una cultura viva agli alunni desiderosi di capire tutte le ragioni dello studio che fanno (pena l’abbandono delle mura scolastiche e quindi l’incremento del tasso di dispersione), che si collocano i lavori della annuale Convention Scuola di Diesse (Protagonisti nella scuola, per la crescita della sociètà; Bologna, 13-14 ottobre) e che sta suscitando molta attenzione nel corpo docente, ad iscrizioni appena avviate. In particolare, interessa il cuore della manifestazione, giunta alla sua IV edizione, costituita dalle “botteghe dell’insegnare”, luoghi di rapporti tendenzialmente stabili (aperte tutto l’anno tramite contatti e webconference) in cui alcuni insegnanti riflettono insieme ad altri sul significato di ciò che insegnano per potere rendere la materia (dalla matematica alle scienze; dalla educazione sportiva alla storia, alla letteratura, ecc.) insegnabile, cioè aperta all’interesse e alla curiosità sia di chi la insegna, sia di chi la apprende.
Le “botteghe” nascono da un atto di fiducia nei confronti di tanti insegnanti capaci e volenterosi, che sfidano una didattica ripetitiva o asettica, mettendo in atto percorsi di profonda rivisitazione dell’oggetto insegnato. Alla luce di un lavoro comune, le conoscenze raggiungono il fondo misterioso e significativo di cui sono fatte le cose.
Questo è lo scopo delle “botteghe”, ma questo è anche (o dovrebbe essere) lo scopo della scuola che non ha altra ragione d’essere che di porsi come ambito di verifica paziente di un’ipotesi di lettura e interpretazione della realtà, fornita ad alunni di diverse età, nel rispetto del loro grado di comprensione e di giudizio. Botteghe, dunque, che guardano immediatamente la realtà della scuola in tutti i suoi fattori e che si inquadrano, mediante la Convention, nella risposta alla crisi della didattica da parte di persone che prima di tutto rischiano con i colleghi la propria faccia.