Caro direttore, la scelta di Claudio Magris per l’analisi del testo alla maturità ha per me qualcosa di apocalittico. Non per Magris, sia chiaro. Ma perché – azzardo un’interpretazione – la scelta di chi ha preparato la traccia non è caduta su Magris: Magris è semplicemente uno dei tanti scrittori viventi. E quel testo, buono a buttare lì luoghi comuni qualsiasi sui viaggi e le culture diverse, era interscambiabile con un passo di Dan Brown o di Moccia o di Saviano o di Twilight. O anche con un articolo di Travaglio o con una barzelletta di Totti. O con un bugiardino di un integratore alimentare: Sportase, magari, come nelle prove Invalsi dell’anno scorso.
Quel che è grave, insomma, è che è diventato chiaro, quest’anno, che il vero contenuto dell’analisi del testo è solo l’analisi del testo. Non conta assolutamente nulla se mai hai studiato Magris e nemmeno se mai l’hai sentito nominare: conta se sai fare l’esercizietto. Buona notizia, per gli anni a venire: perché sancisce una volta per tutte che non c’è bisogno di studiare per svolgere la prima prova. E quindi ora forse potremo finalmente vedere dei maturandi che la smettono di chiudersi in casa per tutto giugno, sfottuti e additati per il loro pallore dal mondo degli abbronzati. Finiscila di ripetere Ungaretti, Montale, Pascoli, Pirandello, l’hai capito o no? Vogliono solo vedere se sai fare un’analisi del testo, su un testo qualsiasi.
Dalla prova di italiano è scomparsa la letteratura. Come mancava totalmente, del resto, dalle prove scritte per il concorso degli insegnanti. Sì, è questa la linea: l’italiano non è più una materia. «Aboliamo il tema, relitto del passato», suggerisce sul Corriere della Sera Alberto Alesina: che non ha tutti i torti, quando scrive che di fatto «si chiede agli studenti di riempire pagine e pagine su un argomento dato all’ultimo momento di qualsiasi genere», che «insegna a dilungarsi quando non si sa cosa dire». Ma poi chiosa: «ecco il tuttologo letterario». E cosa ci sarebbe mai di «letterario»? L’unica prova seria di italiano rimarrebbe, invece, proprio il tema. Ma di letteratura, come sempre sul Corriere propone Sandro Veronesi: quello che nel ’46 scrisse suo padre sui Sepolcri di Foscolo: e lì, senza «standard», lui – che poi fece l’ingegnere – ebbe l’«occasione di concepire, strutturare, congegnare e comporre il proprio pensiero senza l’aiuto di sponde precostituite» con uno «scoppio di sincerità».
Niente più, adesso. L’italiano non c’entra con i temi, col pensiero e coi Sepolcri: è un’infarinatura di lingua e regole, che serve, come sanciscono le competenze europee esposte in tutti i Pof delle nostre scuole, a «comunicare in lingua madre». Devi imparare un po’ di italiano per trovare lavoro in futuro, per poter spendere la tua laurea. Ma Petrarca, Leopardi e Pavese non servono. L’italiano è una disciplina che non ha una sua specificità.
Un po’ come se ai quiz per la patente uscissero dei quiz non sui cartelli stradali ma sui quiz, perché bisogna vedere se sai fare i quiz. Un po’ come se all’esame di guida ti chiedessero di giocare alla Playstation o di condurre un passeggino gemellare, perché in fondo si tratta di «imparare a imparare». Un po’ come se al test per accedere a Medicina ti chiedessero cose che nulla hanno a che fare con la Medicina. Ah, scusate: questo succede già.
Ci hanno fregati proprio bene, non c’è che dire. Sono riusciti a togliere la letteratura dalle prove di italiano. E il bello è che invece nelle altre materie la specificità rimane: la prova di matematica è una prova di matematica, la prova di latino è una prova di latino. Quella di italiano no: serve vedere se funzioni, non se in questi anni hai per caso letto Manzoni o Dostoevskij. Completamente azzerate le differenze tra chi ha l’inclinazione alla letteratura e chi non ce l’ha.
Ti sei letto (per i fatti tuoi, ovviamente: per prendere 9 mica ti veniva chiesto!) Boccaccio, Ariosto, Calvino? Peggio per te. Il giorno della prova di italiano, la tua materia preferita, non servirà a niente. Conosci perfino gli aspetti formali della poesia? E a che ti serve, se poi le domande di analisi sono vaghissime («soffermati sull’idea di viaggio», «esponi le tue osservazioni»)? E se speravi di spiccare in italiano non spiccherai, e la tua occasione sfuma così, perché forse il giorno dopo non spiccherai nemmeno in matematica, e lo sai: lì però chi va bene in matematica ti brucerà.
Ma cosa vuoi? Ti è capitato di appassionarti a una materia che per i tuoi insegnanti non è una materia. Quanti debiti hai visto mettere in italiano (a meno che uno non sappia proprio parlare o non abbia proprio deciso di non fare nulla)? E quanti ne hai visti invece in matematica, nonostante si siano anche cimentati ma proprio non ci arrivavano? Ti hanno suggerito l’idea che in italiano basta che scrivi quattro chiacchiere e che dici due cose alle interrogazioni. E soprattutto in un liceo scientifico il ragazzo incapace in italiano ma bravissimo in matematica il 100 lo prende: ma il ragazzo eccezionale in italiano ma meno portato per la matematica il 100 non lo prende. È così: l’italiano non è una roba seria, è tutta questione di opinioni, di chiacchiere da bar.
Da anni gli insegnanti danzano allegramente fra due strade inconciliabili: una, reazionaria, che si ostina a spiegare, assegnare paragrafi e a interrogare su contesto storico, biografia, opere, ideologia, stile, su autori come Foscolo, Verga, Svevo, e che lascia poi i ragazzi, il giorno della loro prova, completamente disorientati; e un’altra, giovanilistica, che ormai si è rotta di Dante e di Manzoni, e fa leggere Dacia Maraini, Corrado Augias, Niccolò Ammaniti, Erri De Luca e tutto il giro Feltrinelli. Ed ecco arrivano gli esami, e cosa scrivono i maturandi su Facebook? Ma chi diavolo è ’sto Claudio Magris?