Come presentare ai non addetti ai lavori la figura dello slavista Vittorio Strada, morto a Venezia il 30 aprile, pochi giorni prima di compiere 89 anni?
Certamente non come un erudito, tutto dedito alle sue ricerche; indiscutibilmente Strada è stato anche un erudito, ma questo non basta a qualificarlo. Ed è stato anche un grande slavista — Ol’ga Sedakova lo ha definito “il patriarca della slavistica mondiale” —, uno studioso che ha fatto tantissimo per far conoscere in Italia e nel mondo autori come Pasternak, Bachtin, Bulgakov, Solženicyn. Ma pure in questo caso bisogna dire che Strada era qualcosa di più: un filosofo, uno storico e politologo appassionato indagatore dei sistemi politici nella loro natura profonda.
Tutte grandi cose, certo, eppure bisogna ammettere che neanche questo spiega lo spessore della sua attività intellettuale; dietro c’era una passione più grande di tutte queste discipline: passione per la cultura sì, ma al tempo stesso per gli ideali politici e per la realtà tutta, nelle sue manifestazioni storiche, artistiche ma, soprattutto, umane. Nell’introduzione alla propria autobiografia aveva detto lui stesso che le opere che scriveva erano “il frutto di un’esperienza di vita, oltre che di una ricerca di studio”.
E infatti la sua vita si è distinta non solo per gli studi, ma anche per l’arrischiato cammino personale che lo aveva spinto ad approfondire sempre di più quegli stessi studi e che lo aveva portato, ad esempio, dall’iniziale leninismo (che gli aveva meritato una borsa di studio triennale a Mosca nel 1957, cosa allora rarissima) al rifiuto più radicale del comunismo e dei suoi ideali, facendo di lui un perenne outsider, un personaggio “eccentrico” che non si accontentava mai delle verità acquisite e rifiutava le “verità politiche”. Del resto, era stato un leninista critico sin dal principio: raccontava di aver iniziato giovanissimo la militanza nella sinistra comunista quasi “involontariamente”, per “naturale inclinazione” verso la giustizia e non per tradizione familiare né per scelta intellettuale.
Tutta la vicenda tormentata della sua uscita dal comunismo, costellata di incidenti, ricatti, dinieghi, dimostra da parte sua un’onestà intellettuale e un coraggio non comuni. Anche a costo di mettere a repentaglio il proprio benessere, Strada non avrebbe rinunciato per nulla al mondo all’esercizio del giudizio critico; per questo l’esperienza diretta delle contraddizioni della vita sovietica reale aveva lasciato necessariamente un segno nella sua posizione intellettuale e politica, e dunque nelle sue scelte di vita. Mentre il governo sovietico (a partire dal 1968) arrivava a togliergli il visto e il Pci lo bacchettava, Strada, dopo aver rotto i rapporti di collaborazione con la casa editrice Einaudi per dissapori ideologici, aveva continuato con l’atteggiamento che gli era più consono: quello di una immutabile apertura a qualsiasi nuova conoscenza, a tutto ciò che gli si presentava di vero e di bello, da qualsiasi schieramento provenisse. Sempre Ol’ga Sedakova ha osservato che era difficile trovare una persona “così interessata a tutto ciò che accadeva in Russia… così ricettiva di tutto ciò che di sincero, interessante e significativo si manifestava nella nostra cultura”.
Lui lo spiegava con le ragioni di “una logica interiore” che non lo aveva mai ingannato, con un impulso, un’insofferenza per le logiche di schieramento e un amore per la libertà che lo portavano a “scelte talora incomprensibili agli altri”.
Ed effettivamente… aveva deciso di iscriversi al Pci nel 1956, proprio nel momento in cui la rivolta di Budapest repressa nel sangue aveva indotto molti ad uscirne! Ma lo spingeva la speranza (poi riconosciuta da lui stesso ingenua) che dopo quella fatale caduta il comunismo non potesse che risollevarsi e riprendere l’afflato ideale. Ma anche in questi errori di valutazione aveva proseguito il suo onesto cammino di cercatore, come aveva scritto: “Non c’è un retto cammino già tracciato e l’errare fa parte del camminare come l’errore fa parte della verità, se la si ricerca e non si presume che essa sia già in nostro possesso”.
Il rapporto con la verità aveva sempre caratterizzato la sua vita e la sua ricerca intellettuale. La ricerca della verità era per lui un cammino infinito, che «vale più di una verità posseduta senza una ricerca» e nel quale ogni soluzione di un problema era buona se apriva altri problemi. Per questo la delusione riguardo al comunismo non aveva segnato la fine del suo entusiasmo “ideale”: altre domande gli si erano affacciate via via, così che dietro le sue ricerche anche molto specialistiche (come le ultime, sul terrorismo, sul senso dell’impero) si coglieva sempre una visione più ampia, una riflessione sull’uomo e sui destini della Russia e dell’Europa. Ed era una riflessione per lui inestricabile perché era profondamente convinto che la Russia fosse indivisibile dall’Europa e dalla sua cultura umanistica e cristiana.
Quella stessa cultura che lui stesso condivideva. Strada raccontava che all’inizio il suo interesse per la Russia aveva avuto due motori: la lettura di Dostoevskij e la rivoluzione; il fascino della seconda stava soprattutto nella serie di domande che apriva riguardo all’uomo, alla società e alle vie per dare agli uomini una vera giustizia. Ma Dostoevskij non era mai tramontato, era rimasto per sempre il suo “compagno di un viaggio spirituale, che non conosceva punti di arrivo” per il semplice fatto che al centro di tutto c’era un uomo che si mette costantemente in discussione, un uomo che non chiude mai la ricerca della verità perché non riesce mai a cancellare il senso del mistero che attraversa il reale e che muove l’uomo stesso verso qualcosa che lo definisce ma non è suo, e proprio per questo lo interroga continuamente.
Raccontava in queste ore lo storico Andrej Zubov che un giorno, entrati in una chiesa veneziana deserta, lo aveva visto farsi pensieroso: “vengo spesso in chiesa — gli aveva detto — e mi chiedo che senso ha la mia vita, se ho compiuto la volontà di Dio”.